Ci sono almeno due credenze popolari che associano la presenza della lettera “R” nel nome dei mesi all’opportunità di svolgere in sicurezza due attività comuni: esporsi al sole e mangiare frutti di mare. L’indicazione, però, è opposta: mentre nei mesi con la “R”, secondo la tradizione, sarebbe poco salutare prendere il sole, è viceversa nei mesi che non ce l’hanno (maggio, giugno, luglio, agosto) che si dovrebbero evitare ostriche e altri molluschi.
È evidente che la presenza della “R” indica semplicemente i mesi che vanno dall’inizio dell’autunno alla primavera avanzata, mentre al contrario quelli senza, che vanno da maggio ad agosto, rappresentano in Europa il periodo più caldo dell’anno. Il riferimento alla “R” nel nome serve quindi solo, in entrambi i casi, a facilitare la memorizzazione di una norma legata alla stagionalità. Ai lettori più attenti non sfuggirà tuttavia che a questa classificazione fa eccezione gennaio, mese tipicamente invernale, eppure privo della lettera che dovrebbe caratterizzarlo. La discordanza permette di risalire all’origine di questa tradizione, che ha le radici in altre lingue: per i frutti di mare al francese, dove gennaio è detto “Janvier”, con la “R” (come peraltro anche “January”, in inglese), mentre per l’esposizione al sole si risale al siciliano, che chiama gennaio “jnnaru”, con la stessa “R” immancabile da settembre ad aprile.
A quando risale questa tradizione?
Il più antico riferimento alla norma sui frutti di mare risale a un documento del 1725, in cui Nicolas-Jean-Baptiste Ravot, cavaliere e signore di Ombreval e di altri luoghi, consigliere del re Luigi XV, capo della polizia, prefetto e visconte di Parigi, prende atto della lamentela del procuratore del re a Chatelet, secondo cui negli ultimi anni si erano fatti frequenti i casi di persone che nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto erano stati male dopo aver mangiato ostriche. Da qui chi scrive, quasi applicando una sorta di metodo scientifico, avanza una serie di ipotesi per spiegare il fenomeno: forse in quel periodo i molluschi erano di peggiore qualità, oppure cambiavano in estate le modalità di raccolta e preparazione nei porti, oppure era la distribuzione all’interno della città in una stagione così avanzata che esponeva a un caldo eccessivo, incompatibile con questo genere di merce. Preso atto di tutto questo, il funzionario proibisce la vendita delle ostriche per le strade di Parigi dalla fine di aprile all’ultimo giovedì di agosto [1].
Uno studio pubblicato alla fine del 2019, indagando su tumuli di conchiglie tipici di molte aree antiche, nei pressi degli estuari dei fiumi, suggerisce tuttavia che già 4.000 anni fa, sulla costa meridionale degli Stati Uniti, e in particolare della Georgia, la raccolta delle ostriche avveniva per lo più a partire dalla fine dell’autunno e non oltre la primavera avanzata [2].
Dottore, questa credenza è fondata?
La tradizione di non mangiare questi alimenti in estate, ancora molto viva proprio nelle città di mare dove i turisti li cercano di più nella bella stagione, ha in effetti qualche fondamento. È vero, come osservava già trecento anni fa il capo della polizia di Parigi, che con il caldo è più facile che questo tipo di prodotti vada a male, ospiti la proliferazione di batteri come la salmonella o diventi veicolo di altre malattie infettive o di intossicazioni, soprattutto quando vengono consumati crudi, come accade con le ostriche o con i ricci di mare [3].
Attraverso frutti di mare crudi, raccolti o conservati in condizioni igieniche inadeguate, è tuttavia possibile in qualunque periodo dell’anno contrarre infezioni come l’epatite A o una gastroenterite da norovirus, tipica, anzi, proprio della stagione invernale, indipendentemente dalla presenza di “R” nel nome del mese in cui si gustano queste specialità [4]. Secondo un’indagine condotta dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) tra il 2016 e il 2018, al momento della raccolta un’ostrica su tre, e tra i prodotti in vendita una su dieci, sarebbe contaminata da questi virus, che possono dare anche sintomatologie gravi e si trovano con maggiore frequenza tra novembre e aprile (tutti mesi con la “R”) [5].
È bene sottolineare, tuttavia, che nello studio la frequenza di questa contaminazione è risultata maggiore nei siti di produzione europei situati nelle aree di mare più inquinate da scarichi fognari e molto meno in quelli dove l’acqua è più pulita e non si richiedono quindi particolari trattamenti di purificazione. La presenza di controlli adeguati da parte delle autorità sanitarie, quindi, riduce moltissimo il rischio.
Il fattore stagionale, inoltre, è oggi mitigato dalla disponibilità di frigoriferi che dovrebbero garantire un’adeguata catena del freddo dal luogo di raccolta al piatto del consumatore. Infine, tutto quello che si è detto finora riguarda il consumo di ostriche, o di altri frutti di mare crudi: la tradizione sbaglia quando vuole estendere questa cautela anche a pesci o crostacei, ma anche a vongole e cozze cotte, dal momento che i primi non sono portatori di queste tossinfezioni e in ogni caso il calore elimina tutti questi rischi.
Dottore, ci sono anche ragioni ambientali per questa prescrizione?
La saggezza popolare spesso fa riferimento anche a un mondo in cui il rispetto dei cicli della natura consentiva agli esseri umani di non esaurire le loro stesse fonti di sopravvivenza. La maggior parte degli animali marini di cui ci nutriamo si riproduce infatti durante i mesi estivi. Rispettare questa fase delicata consentiva quindi di mantenere intatte le riserve alimentari che il mare poteva fornire. Oggi questi aspetti sono oggetto di regolamentazioni severe, che prevedono specifici periodi di divieto di pesca proprio per la salvaguardia delle diverse specie.
Le cozze, per esempio, vanno contro la regola delle “R”, almeno quando sono nostrane: nel Mediterraneo, infatti, si riproducono durante la stagione più fredda, e nei mesi estivi (senza “R”) raggiungono il massimo del loro gusto, diversamente da quel che accade per quelle francesi o iberiche coltivate sulle rive dell’oceano, in acque più fredde e con diverse caratteristiche, dove la regola della “R” può valere ancora.
Dottore, che mi dice invece dell’esposizione al sole?
Se quindi la tradizione relativa al consumo di frutti di mare parte da un fondo di saggezza popolare – per quanto superata in un’epoca come la nostra di frigoriferi e controlli più accurati – non si può dire altrettanto dell’idea che non ci si debba esporre al sole nei mesi con la “R”, cioè in quelli più freddi.
La raccomandazione è ancora più insensata per il fatto di nascere, come si accennava all’inizio, da un proverbio siciliano: “Ne’ misi cc’a erri, nun ti méttiri ‘o suli, e mancu ‘n terra” (“Nei mesi con la R, non metterti al sole e neanche a terra”). Il senso del consiglio, per come viene riportato, è che anche al di fuori del periodo estivo, da settembre ad aprile, ci possono essere giornate di sole che invitano a scoprirsi, ma un colpo d’aria, o un brusco abbassamento delle temperature è sempre in agguato. Ora, soprattutto tenendo conto che il proverbio viene dalla Sicilia e non dalla Norvegia, non si può certo dire che stare all’aperto dall’autunno alla primavera possa rappresentare un qualunque pericolo. Anzi, è proprio nei più freddi Paesi del nord Europa che è normale tenere anche i bambini all’aperto in qualunque stagione e con qualunque temperatura.
Oggi sappiamo che la paura del “colpo d’aria”, tipica della cultura italiana, non ha riscontro scientifico. Si dovrebbe piuttosto stare attenti durante tutto l’anno, non solo d’estate, a proteggersi dai danni alla pelle e dall’aumento di rischio di tumori cutanei provocati dall’irradiazione solare, soprattutto in montagna, ma a primavera anche in un parco di città (ne abbiamo parlato nelle schede “Se la pelle è già abbronzata o scura la crema solare non serve?” e “Abbronzarsi fa sempre bene?”).
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