Lo zucchero bianco è un veleno?

1 Marzo 2018 di Roberta Villa

Da dove nasce questa idea?

L’avversione nei confronti dello zucchero, con la convinzione che sia un alimento dannoso per la salute – al punto da essere definito “veleno bianco” – corre su un doppio binario: da un lato c’è chi porta avanti la sua battaglia contro lo zucchero raffinato, quello bianco appunto, sostenendo che lo zucchero di canna sia molto più salutare e quindi sempre da preferire; dall’altro ci si preoccupa che lo zucchero in sé, indipendentemente dai processi industriali a cui è sottoposto, possa favorire lo sviluppo dei tumori.

Per quanto riguarda il primo punto, si sente spesso sottolineare che nella raffinazione dello zucchero si usano calce e anidride solforosa, due sostanze che all’orecchio suonano come non commestibili e che verrebbe da associare all’edilizia o a lavorazioni industriali piuttosto che alla tavola. Inoltre durante la lavorazione il prodotto perde calcio, ferro, potassio e altre sostanze, per cui sarebbe molto più povero dal punto di vista nutrizionale. Molti pensano che invece lo zucchero di canna contenga anche vitamine e che, essendo considerato in qualche modo più “salutare” e “dietetico”, possa perfino aiutare a dimagrire.

Recentemente quindi qualcuno ha gridato alla truffa, scoprendo che parte dello zucchero bruno in commercio origina da zucchero bianco raffinato, sostenendo che sia camuffato con un colorante.

Sul fronte del cancro, invece, qualcuno mette in guardia dallo zucchero perché rappresenterebbe il “carburante” delle cellule tumorali e fornirebbe loro il nutrimento necessario a crescere e prosperare. Evitando del tutto i dolci e bevendo il caffè amaro sarebbe quindi possibile frenare la proliferazione cellulare alla base del tumore, o almeno non incoraggiarla.

Questa teoria è rafforzata dalle osservazioni di Otto Warburg, premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1931 per i suoi studi sulla respirazione cellulare, che avviene in organelli cellulari chiamati mitocondri. Per quanto riguarda il cancro, egli scoprì che per ricavare energia dallo zucchero le cellule tumorali, rispetto a quelle sane, invece di ricorrere alla lunga e complessa reazione che avviene sui mitocondri, tendono a usare una reazione più rapida ma meno efficiente, la glicolisi anaerobica, che richiede una maggiore quantità di zucchero per produrre la stessa energia. Da qui deriva il maggior fabbisogno delle cellule tumorali rispetto alle altre, e la conseguente idea che abolire lo zucchero dalla dieta possa “affamarle” mentre fornirglielo, al contrario, le aiuterebbe a crescere.

Inoltre uno degli esami più importanti per la diagnosi delle metastasi, la PET, riconosce tra le altre le cellule tumorali proprio per il fatto che consumano molto glucosio.

Perché ci crediamo?

L’ostilità nei confronti dello zucchero bianco si inserisce nel filone delle tante idiosincrasie che sono nate nel ricco mondo sviluppato nei confronti di tutto ciò che è industriale, non è “naturale”, o comunque è meno naturale di qualcos’altro, in questo caso lo zucchero bruno.

Per affinità con altri prodotti – ad esempio la farina, che nella raffinazione perde componenti importanti come le fibre – oggi si tende spesso a pensare che la lavorazione di un prodotto “naturale” ne riduca il valore nutrizionale.  Il termine “raffinato”, riferito allo zucchero privo di ogni impurità, ha perso così la sua originaria valenza positiva. Il forte odore che si libera dagli impianti contribuisce alla sua cattiva fama.

Infine l’inconscia associazione mentale con altri tipi di raffinerie – quelle in cui si lavora il petrolio – rinforzata dall’uso di sostanze chimiche, sebbene innocue come l’idrossido di calcio e l’anidride solforosa, fa il resto.

Che cosa la smentisce?

Intanto bisogna intendersi sui termini: con il termine “zucchero” si intende nel linguaggio comune il saccarosio usato per dolcificare alimenti e bevande. È costituito a sua volta da due zuccheri semplici, glucosio e fruttosio, in cui viene scisso a livello dell’intestino per essere assorbito dall’organismo.

Si può ricavare indifferentemente dalla canna o dalla barbabietola da zucchero, e può essere purificato fino a raggiungere il suo tipico colore bianco. Quando si estrae dalla canna da zucchero gli si può lasciare una parte di melassa, una sostanza bruna che ha un sapore gradevole e attribuisce il colore tipico a quello che chiamiamo abitualmente “zucchero di canna”. Questo è detto “grezzo”, e in teoria dovrebbe essere diverso da quello “integrale” che non è stato sottoposto allo stesso trattamento.  Ma poiché il termine “integrale” per lo zucchero – a differenza che per le farine – non è normato, a rigore i due non si possono distinguere e a livello commerciale vengono spesso usati indifferentemente l’uno al posto dell’altro.

Negli Stati Uniti a volte si aggiunge una piccola quantità di melassa (non un colorante artificiale) allo zucchero già raffinato per recuperare il colore originario: nessuna truffa, nessuno scandalo, ma un procedimento riconosciuto come più che lecito, che anche in Italia è ammesso purché indicato sull’etichetta.

I minerali rimangono nella melassa per cui solo gli zuccheri che hanno subito una minima lavorazione (come il muscovado o il panela) ne conservano una parte, ma in quantità comunque irrisoria rispetto al fabbisogno giornaliero di chiunque. Di vitamine, invece, nemmeno l’ombra.

Per fare un esempio, 100 grammi di zucchero di canna (un normale cucchiaino ne contiene 5) contiene 83 mg di calcio. Il nostro organismo ne richiede 1000 al giorno, richiesta che si potrebbe soddisfare con 1,2 chili di zucchero o con meno di un etto di parmigiano (1165 mg l’etto). O meglio ancora, suddividendo il fabbisogno di questo minerale tra i molti alimenti che lo contengono in quantità significative. E il ferro? Un etto di zucchero ne contiene 0,71 mg, mentre 100 grammi di lenticchie ne danno dieci volte tanto, tralasciando qui il discorso della biodisponibilità, cioè quanto minerale contenuto in un alimento riesca poi a raggiungere gli organi che se ne servono. Per ricavare dallo zucchero di canna la stessa quantità di potassio contenuta in una banana bisognerebbe consumarne tre etti. Insomma, per assumere in una dose significativa i minerali contenuti nello zucchero bruno bisognerebbe consumarne giornalmente una quantità inconcepibile anche per i più golosi.

Non ha senso quindi scegliere l’uno o l’altro zucchero sulla base delle loro proprietà nutrizionali: qualunque sia il colore, l’aspetto o il gusto, l’apporto di calcio, ferro e potassio è comunque insignificante.

Identico è anche l’apporto calorico (circa 4 Kcal al grammo) ai fini della dieta.

È vero che nel processo di purificazione si usa idrossido di calcio (cioè “latte di calce”, anche detta “calce spenta”), e talvolta per la canna da zucchero l’anidride solforosa, ma di queste sostanze, usate da secoli per la purificazione dell’acqua e la produzione di molti altri alimenti (dal latte per i neonati al vino) nel prodotto finale non resta traccia, se non minima. Per fare un esempio, nel vino ci sono dieci volte le quantità di anidride solforosa che potrebbero essere contenute nello zucchero. E se molte persone bevono uno o due bicchieri di vino al giorno, è meno comune consumare quotidianamente un’equivalente quantità di zucchero. Se lo fosse, prima ancora di porsi il problema delle sostanze contenute nello zucchero bisognerebbe preoccuparsi del suo effetto sull’organismo, se assunto in quantità così elevate.

Arriviamo così al legame tra zucchero e cancro. È senz’altro vero che il glucosio – derivato dalla scissione del saccarosio – è il principale fornitore di energia per le cellule tumorali, ma lo è esattamente allo stesso modo anche per tutte le altre cellule. L’idea di privarsi del piacere dello zucchero nel caffè per contrastare la malattia non ha quindi alcun senso, tanto più che anche altri alimenti, come i carboidrati di pane e pasta, vengono ridotti a glucosio prima di essere utilizzati, e che anche altri nutrienti sono trasformati in glucosio dalla cellula quando questo viene meno, attraverso un processo detto di gluconeogenesi.

Soprattutto nei malati di cancro, quindi, in cui non di rado si verificano carenze nutrizionali, troppe limitazioni alimentari possono fare più male che bene.

Diverso è il discorso riguardo all’abuso: un eccessivo apporto di zuccheri può provocare sovrappeso e obesità, questi sì sicuramente correlati a un aumento del rischio di cancro oltre che di molte altre malattie, da quelle cardiovascolari al diabete di tipo 2 e alla carie dentale. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda con forza che gli zuccheri semplici (per esempio fruttosio o saccarosio) non apportino più del 10% del fabbisogno calorico giornaliero totale, ricordando che queste sostanze non sono contenute solo nei dolci o nelle bevande, ma anche in molti altri prodotti (un cucchiaio da tavola di salsa ketchup, per esempio, contiene l’equivalente di un cucchiaio da tè di zucchero).

Alcune linee di ricerca stanno infine indagando se un consumo abbondante e prolungato di zuccheri possa favorire lo sviluppo o la crescita del cancro aumentando velocemente la glicemia e così inducendo un’eccessiva e prolungata produzione di insulina. Questo ormone a sua volta stimola la produzione di un fattore di crescita chiamato IGF-1 che, come dice il nome, favorisce la proliferazione delle cellule. Quelle del tumore al seno sembrerebbero particolarmente sensibili a questo effetto, ma gli studi finora disponibili non permettono di fornire un’indicazione precisa in questo senso che non sia quella del buon senso e della moderazione.

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Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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