Da dove nasce questa idea?
I primi sospetti che l’olio di palma potesse essere poco salutare hanno preso piede qualche anno fa, soprattutto in Francia, ma in breve si sono diffusi anche in Italia. I dubbi riguardano soprattutto l’elevato contenuto di acidi grassi saturi di questo prodotto, nonostante la sua origine vegetale. I grassi saturi, infatti, noti per aumentare il colesterolo LDL, quello cosiddetto “cattivo”, e considerati quindi un possibile fattore di rischio per malattie cardiovascolari, sono tipicamente contenuti nei grassi di origine animale, come burro e strutto, mentre si ritrovano solo in piccole quantità nella maggior parte degli oli di origine vegetale, come l’olio di oliva, in cui prevalgono gli acidi grassi monoinsaturi, considerati più “sani”.
La questione esplose nel 2011, quando entrò in vigore la nuova normativa europea sulle etichette alimentari (il regolamento 1169/11), che imponeva alle aziende di indicare nel dettaglio il tipo di grasso presente nel prodotto, invece del più generico “grassi vegetali aggiunti” usato fino ad allora. Emerse quindi che moltissimi dolci, la quasi totalità dei prodotti da forno, ma anche prodotti per l’infanzia come alcuni tipi di latte per neonati, contenevano olio di palma. Negli anni, infatti, l’olio di palma – che nonostante il suo nome a temperatura ambiente ha consistenza solida – era andato a sostituire in molte preparazioni industriali il burro, più costoso, e le margarine, costituite allora per lo più da acidi grassi idrogenati di cui era stata riconosciuta la pericolosità per la salute. Sebbene oggi le modalità di produzione delle margarine siano cambiate, rendendole più sane, l’olio di palma continua a essere molto utilizzato per il suo basso costo e per le sue caratteristiche organolettiche, perché si conserva bene e mantiene le sue proprietà anche a temperatura elevate.
Un ulteriore motivo di allarme si è aggiunto nel 2016 in seguito alla pubblicazione di uno studio dell’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, secondo cui sarebbero state trovate nell’olio di palma alte concentrazioni di sostanze nocive, in particolare 3-monocloropropandiolo (3-MCPD) e 2-monocloropropandiolo (2-MCPD), tossici soprattutto per i reni e per la fertilità maschile, e glicidilesteri degli acidi grassi (in sigla GE), potenzialmente in grado di provocare mutazioni nel DNA e quindi di favorire lo sviluppo del cancro.
Già prima di parlare di questi possibili effetti sulla salute, tuttavia, l’uso dell’olio di palma era stato messo sotto accusa da Greenpeace per gli effetti sull’ambiente nei Paesi tropicali da dove proviene, per lo più Indonesia e Malesia: qui infatti, l’estesa coltivazione di palme destinata all’estrazione del prodotto (non solo per l’industria alimentare, ma anche per quella dei cosmetici e come biocarburante) avrebbe sostituito altre piante, compromettendo la biodiversità, e avrebbe contribuito in maniera sostanziale alla deforestazione, di cui soffrono tra l’altro molti animali, come gli oranghi, privati del loro habitat.
Altre denunce, da parte di Amnesty International, riguardavano lo sfruttamento di minori, costretti a lavorare nelle piantagioni in condizioni pericolose.
Perché attecchisce?
Sulla crociata contro l’olio di palma, che pure ha un suo fondamento, pesa il sospetto che sia stata alimentata da una parte e dall’altra da ragioni commerciali che nulla hanno a che vedere con la salute delle persone e del pianeta. Per esempio in Francia, Paese grande produttore di burro, si è arrivati a proporre una legge, poi mai approvata, per quadruplicare la tassazione sull’olio di palma importato per uso alimentare: una norma che fu chiamata “tassa sulla Nutella”, a sottolineare uno dei prodotti più presi di mira, in tutto il mondo, da questa operazione, arrivando a diventarne in qualche modo simbolo, sebbene come si è detto l’olio di palma sia contenuto in moltissimi altri alimenti.
Inoltre, dal punto di vista individuale, rispetto al burro – che molti legano al concetto di genuinità e a piacevoli ricordi d’infanzia – l’ostilità nei confronti di un prodotto industriale e di provenienza esotica è sostenuta dalla maggior percezione del rischio nei confronti di tutto ciò che non è “naturale” e con cui abbiamo minore familiarità, indipendentemente dalle sue effettive proprietà nutrizionali.
Che cosa c’è di vero?
Non sono bufale le informazioni scritte qui sopra, ma, come spesso accade, si tratta di metterle in prospettiva. È vero infatti che l’olio di palma, diversamente da altri grassi vegetali come l’olio di oliva, contiene circa il 50% di grassi saturi, riconosciuti responsabili di un aumento del colesterolo LDL nel sangue.
Ma, come sintetizza il parere dell’Istituto superiore di sanità, “non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l’olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro”. In altre parole, una pastafrolla prodotta dall’industria con olio di palma invece che fatta in casa con il burro ha circa lo stesso apporto di grassi saturi. Le cose non cambiano con gli altri pochi grassi vegetali solidi usati a livello industriale, come il burro di cacao, che apporta lo stesso quantitativo di acidi grassi saturi di quello di palma, o l’olio di cocco, che ne ha addirittura di più.
D’altra parte, alcuni studi recenti hanno messo in dubbio che gli acidi grassi saturi in sé siano da demonizzare. Queste sostanze sono contenute in tutti gli alimenti di origine animale che consumiamo ogni giorno, dal latte alla carne, dai formaggi alle uova: come nella maggior parte delle questioni relative all’alimentazione, non si tratta tanto di evitarli completamente, ma di assumerne in quantità moderata. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità basta che non forniscano più del 10% dell’apporto calorico giornaliero.
Anche l’allarme relativo alla possibile azione cancerogena dei prodotti liberati dall’olio di palma al calore va letta in termini quantitativi: secondo l’EFSA, la dose tollerabile – sotto cui non c’è rischio – del più importante di questi (3-MCPD), sarebbe di 2 microgrammi per chilo al giorno, una quantità difficilmente raggiungibile con l’alimentazione; e anche per i GE, in condizioni normali, la soglia di sicurezza non sarebbe facile da raggiungere.
Questi cosiddetti “contaminanti di processo”, poi, si liberano per effetto del calore da tutti gli oli e grassi animali o vegetali portati oltre i 200°C di temperatura, durante la purificazione del prodotto grezzo o nei successivi processi produttivi, e non riguardano quindi solo l’olio di palma. Anzi, secondo gli esperti, è difficile che durante la produzione degli alimenti che contengono olio di palma si raggiungano temperature così elevate.
Come per la maggior parte delle sostanze potenzialmente cancerogene a cui siamo esposti ogni giorno, comunque, dalla carne lavorata all’alcol, il rischio è legato alla dose. La scelta migliore per la propria salute è sempre quella di variare gli alimenti che si introducono, senza eccedere in quantità.
La stessa EFSA che ha messo in luce la presenza dei contaminanti, infatti, non chiede e neppure ipotizza la messa al bando dell’olio di palma.
Un caso particolare è però quello dei neonati nutriti esclusivamente con latte artificiale, che sempre secondo l’EFSA sarebbero esposti a una dose più elevata di questi contaminanti. La maggior parte dei produttori aggiunge infatti olio di palma nella composizione del latte artificiale per renderlo il più possibile simile al latte materno. Circa il 20-25% dei lipidi contenuti nel latte materno, infatti, è rappresentato proprio dall’acido palmitico, lo stesso acido grasso che prevale tra i costituenti dell’olio di palma. Un’alta quota di acidi grassi saturi, in questa fase della vita, è infatti importante per la crescita e lo sviluppo, per cui la questione non riguarda, in questo caso, la composizione lipidica, ma l’eventuale presenza dei “contaminanti di processo” liberati durante la raffinazione, la cui concentrazione negli ultimi anni è stata comunque drasticamente ridotta.
Esistono latti artificiali privi di olio di palma, ma allo stato delle conoscenze non possiamo affermare con certezza se siano migliori degli altri, né se la minima concentrazione di contaminanti ancora presenti nell’olio di palma rappresenti un reale rischio per la salute del bambino. Se appena possibile, in ogni caso, vale sempre la raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità di proseguire fino a sei mesi l’allattamento esclusivo al seno.
Che cosa è stato fatto?
Per rispondere alle preoccupazioni dei consumatori molte aziende hanno sostituito l’olio di palma con altri prodotti, dando grande rilievo a questa loro scelta sulla confezione. Se tuttavia, al suo posto, è usato olio di cocco o burro di cacao, che non contengono minori quantità di grassi saturi, l’atteso vantaggio in termine di salute cardiovascolare svanisce.
Negli ultimi anni, inoltre, sono stati modificati i processi di purificazione per ridurre fin dall’origine i livelli di contaminanti potenzialmente nocivi (2-3 MCPD e GE): secondo la prima revisione dell’EFSA, la stessa che ha lanciato l’allarme, i livelli di GE negli oli di palma si sarebbe dimezzato tra il 2010 e il 2015 per effetto dei provvedimenti presi dalle aziende.
Per rispondere alle obiezioni sulla sostenibilità ambientale e sociale di questi prodotti, infine, è stata creata la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (Roundtable on Sustainable Palm Oil, RSPO) che certifica la provenienza del prodotto da piantagioni coltivate nel rispetto dell’ecosistema e delle popolazioni locali, a cui hanno aderito molte grandi aziende che hanno deciso di continuare a usare olio di palma nei loro prodotti. Ma questo è un aspetto che non riguarda in maniera diretta la salute dei consumatori.
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