Non diversamente da quello che accadeva un tempo intorno ai tavolini dei bar, le fantasie sui complotti proliferano su Internet e sono amplificate dalla Rete. Ecco che già a partire dai primi casi registrati di malattia da coronavirus (SARS-CoV-2) sono iniziate le domande: la diffusione del coronavirus è frutto di una cospirazione per ridurre la popolazione mondiale? L’epidemia serve a distrarci da qualche altro problema che si vuole tenere nascosto? A una delle domande più ricorrenti – Il nuovo coronavirus è stato prodotto in laboratorio come arma biologica? – abbiamo già dato risposta, ma conviene tornare sull’argomento.
Le teorie del complotto sono semplicemente inventate oppure basate sull’interpretazione errata di video o di notizie che circolano in Rete. Vedi, nel caso particolare del coronavirus, i filmati di persone sedute intorno a tavole imbandite e che consumano improbabili zuppe di pipistrello. Come anche i famosi video che riprendono persone dai lineamenti asiatici mentre inseguono animali vivi con la speranza di riuscire a mangiarli. Si tratta di notizie regolarmente e facilmente smentite, alle quali talvolta si finisce col credere per il bisogno di dare risposte semplici a problemi complessi [1].
Inoltre, non poche persone sono disorientate dal fatto che i medici e i ricercatori che si esprimono sull’argomento possano avere punti di vista differenti: non sarà proprio questa la prova che non viene rivelata ai cittadini tutta la verità?
Come ha ammesso Pietro Greco, una delle persone più esperte in tema di informazione scientifica e comunicazione del rischio, è vero che “le sensibilità espresse dagli esperti non sono univoche. Esprimono in generale almeno due culture di prevenzione e comunicazione del rischio diverse”. Da una parte c’è chi propone, per così dire, la “cultura dello scenario peggiore” e invita a prepararsi a questo, anche a costo di esagerare nel tentativo di prevenirlo. L’altra scuola di pensiero” spiega Greco “è quella che cerca di contestualizzare l’epidemia”. Questo secondo approccio può forse aiutare a farsi un’idea più circostanziata della realtà e ad affrontarla con minore preoccupazione, senza però correre il rischio di minimizzare la gravità della situazione per la salute pubblica [2].
Nessuno vuole nascondere nulla. I punti di vista diversi sull’epidemia di coronavirus (SARS-CoV-2) sono la conferma dell’esistenza di una comunità scientifica che si confronta e discute sulle migliori strategie per affrontare l’emergenza sanitaria e, per questo, dovrebbero rassicurare i cittadini. Al contrario, “le teorie della cospirazione non fanno altro che creare paura, voci e pregiudizi che mettono a repentaglio la collaborazione globale nella lotta contro questo virus” [3].
Per motivi politici, uno Stato potrebbe volere tenere nascosti dei dati?
Uno dei vantaggi degli straordinari cambiamenti nella comunicazione avvenuti negli ultimi decenni è la maggiore circolazione delle informazioni. L’impatto delle nuove tecnologie sulla comunicazione in medicina è stato dirompente: non solo ha enormemente aumentato il numero di persone raggiunte dall’informazione sulla salute, ma ha anche reso bidirezionale la relazione tra chi produce e chi riceve un’informazione. Ci sono quindi maggiore scambio e possibilità di confronto.
A questo si aggiunge l’esistenza dal 2005 di un regolamento sanitario internazionale – l’International Health Regulations (IHR) – che coinvolge 196 Paesi in tutto il mondo, compresi tutti gli Stati membri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) [4]. L’obiettivo è aiutare la comunità internazionale a prevenire e rispondere ai rischi acuti per la salute pubblica che hanno il potenziale di attraversare le frontiere e minacciare gli abitanti di tutti (o di numerosi) paesi del mondo. Lo scopo dell’IHR è prevenire, proteggere e fornire una risposta idonea ed equilibrata di sanità pubblica alla diffusione internazionale delle malattie, minimizzando l’impatto negativo sul traffico e sul commercio.
Come si fa a determinare quale sia un rischio acuto per la sanità pubblica?
Nel documento internazionale prima citato un evento straordinario che determina un rischio per la salute pubblica e che richiede una risposta internazionale coordinata deve essere grave, improvviso, insolito o inaspettato. Inoltre, deve comportare implicazioni per la salute pubblica oltre il confine nazionale dello Stato interessato e rendere necessaria un’azione internazionale immediata. È importante precisare che l’IHR è un accordo legale vincolante per le nazioni che lo hanno sottoscritto.
D’accordo, le nazioni hanno l’obbligo di trasparenza: ma perché dovrei fidarmi dei medici e dei ricercatori?
Come ha dichiarato Steve Tsang – direttore del China Institute della SOAS University di Londra – “gli accademici hanno un dovere nei confronti della comunità di cui fanno parte: nel momento in cui la popolazione può essere esposta a un nuovo grave pericolo per la salute, chi lavora nel campo ha la responsabilità di dire la verità ai decisori politici o di esprimersi pubblicamente se necessario” [5]. La completezza dell’informazione, quando percepita dai cittadini, è essenziale: “Se il governo continua a fornire informazioni aggiornate, generalmente le persone cambieranno comportamenti”, ha aggiunto Xue Lan, decano dello Schwarzman College della Tsinghua University, sottolineando l’importanza di una relazione di fiducia.
“La fiducia è probabilmente la colla più importante che tiene insieme la risposta epidemica”, avverte il ricercatore canadese Ross Upshur della Scuola di sanità pubblica Dalla Lana di Toronto [6]. E anche i ricercatori – oltre ai cittadini che non lavorano nella sanità – devono percepire la trasparenza e l’attendibilità delle informazioni che vengono loro fornite. “Se gli operatori sanitari credono di non essere informati della verità completa o pensano che le istituzioni non adottino tutte le misure necessarie a garantire che il lavoro dei professionisti sanitari sia svolto in sicurezza, rifiuteranno le indicazioni che verranno loro fornite” [6].
Quindi, a proposito di coronavirus (SARS-CoV-2), possiamo dire di essere correttamente informati?
È una domanda che non si fanno soltanto i cittadini ma anche le istituzioni e la conferma è arrivata lo scorso 15 febbraio quando il direttore generale dell’OMS – Tedros Adhanom Ghebreyesus – alla conferenza internazionale sulla sicurezza a Monaco di Baviera ha lanciato l’allarme: “Non stiamo solo combattendo un’epidemia, stiamo combattendo una infodemia”, vale a dire un’epidemia di informazioni dannose.
Sylvie Briand, responsabile della gestione del rischio infettivo del programma per le emergenze sanitarie dell’OMS, ha spiegato alla famosa rivista medica Lancet “che si sa che ogni epidemia è accompagnata da una specie di tsunami di informazioni e che in questo insieme di dati e notizie è sempre presente una quota di disinformazione, di voci non controllate. Non è una novità, se è vero che anche nel Medioevo esisteva qualcosa del genere. Ma la differenza è che questo fenomeno è ora amplificato dai social media, le informazioni corrono sempre più velocemente, allo stesso modo dei virus che si spostano e viaggiano con le persone con sempre maggiore rapidità” [7]. “È una nuova sfida e la si vince con il tempismo”, ha aggiunto Briand, che è anche la direttrice del programma dell’OMS per il contrasto all’infodemia “perché devi essere più veloce se vuoi colmare il vuoto di informazioni attendibili. Ciò che è in gioco durante un’epidemia è assicurarsi che le persone facciano la cosa giusta per controllare la malattia o per mitigare il suo impatto”. Quindi non basta assicurarsi che le persone siano informate: bisogna essere sicuri che le persone siano informate per agire in modo appropriato.
Quindi, la risposta alla domanda è: “No, non siamo sempre correttamente informati”. Ma questa è anche una conseguenza di una imperfetta conoscenza dei principi della comunicazione del rischio in caso di emergenza, anche da parte di medici e ricercatori considerati autorevoli nel loro campo di attività. “Troppe voci e troppo discordanti hanno trovato spazio sui media” ha sottolineato il giornalista Pietro Greco “e spesso si tratta di voci autorevoli, talvolta molto autorevoli. Ma questo tipo di interventi si traduce in un boomerang” [2].
Quindi è meglio stare alla larga dai social media?
Assolutamente no. Anzi, se bene usati i social media possono essere il migliore punto di partenza per raggiungere le informazioni e i dati più affidabili sul coronavirus (SARS-CoV-2). Aleksandra Kuzmanovic è la responsabile dei social media nel Dipartimento della comunicazione dell’OMS e ha spiegato che la lotta alle infodemie e alla disinformazione è uno sforzo congiunto all’interno dell’OMS tra i colleghi della comunicazione e quelli che – lavorando sulla piattaforma EPI-WIN – forniscono consigli, supporto e linee guida ai professionisti, raccogliendo anche informazioni da parte degli operatori e delle operatrici sanitarie impegnate sul campo. “Nel mio ruolo” spiega Kuzmanovic “sono in contatto con Facebook, Twitter, Tencent, Pinterest, TikTok e anche i miei colleghi dell’ufficio cinese lavorano a stretto contatto con piattaforme di social media più diffuse in quel Paese. Quando ci accorgiamo del diffondersi di particolari domande o voci infondate ci confrontiamo con i nostri colleghi della comunicazione del rischio che ci aiutano a trovare risposte basate sull’evidenza” [7].
Un’altra iniziativa messa a punto dall’OMS è che, a una persona che su Facebook, Twitter o Google cerchi “coronavirus” o “SARS-CoV-2” o un altro termine correlato, sia proposto un box che la indirizzi verso una fonte affidabile: o al sito web dell’OMS o a quello del Ministero della Salute o di un’altra istituzione sanitaria pubblica. Google ha creato un avviso di aiuto sul Covid-19 nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite e si aggiungeranno anche altre lingue. “L’obiettivo è rendere quelle dell’OMS o delle istituzioni sanitarie pubbliche le prime informazioni che il pubblico riceve” [7].
Quindi, bisogna considerare i social media come strumenti potenzialmente utili, ma occorre sapere distinguere le informazioni credibili da quelle che non lo sono.
Come posso distinguere le informazioni basate sulla ricerca scientifica?
Per orientarsi nell’informazione sulla salute e sulla medicina è utile consultare le pagine sulla navigazione consapevole che troviamo in questo sito. Anche solo considerando i cinque criteri essenziali per la valutazione dei contenuti riassunti in questa pagina, ci accorgiamo che i siti da preferire sono quelli prodotti e aggiornati dalle istituzioni sanitarie come – in Italia – il Ministero della Salute o l’Istituto Superiore di Sanità. I cinque criteri (autorevolezza della fonte, ancoraggio dei contenuti ai risultati della ricerca scientifica rigorosa, trasparenza dei finanziamenti, aggiornamento, rispetto della privacy dell’utente) sono rispettati dal sito Dottoremaeveroche.it.
Per avere un’idea di quanto però sia rilevante il rischio di esporsi a false verità, possiamo considerare il lavoro di un centro di monitoraggio delle informazioni errate sul coronavirus (Coronavirus Misinformation Tracking Center) curato dai giornalisti della rete internazionale NewsGuard. Ebbene, al 28 febbraio 2020 erano stati identificati 93 siti che pubblicano informazioni false e potenzialmente dannose sull’epidemia in corso [8]. Siti riconducibili agli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Germania, Francia e anche all’Italia. Purtroppo, molti dei contenuti pubblicati su queste “risorse” sono assai più condivisi in Rete rispetto a quelli delle autorità sanitarie che cercano di fornire informazioni reali e affidabili.
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