L’idea alla base della cosiddetta paleodieta è molto semplice: se i nostri antenati non soffrivano di determinate malattie è perché mangiavano solo certi alimenti. Nello specifico, quelli per cui erano naturalmente predisposti. Il nome, infatti, fa riferimento al Paleolitico, periodo della storia umana che precede l’introduzione dell’allevamento e dell’agricoltura. Di conseguenza, la dieta paleolitica comprende tutto ciò che ci si poteva procurare attraverso la caccia o il raccolto di vegetali spontanei ed esclude, invece, tutti gli alimenti processati.
Sì quindi a carne, midollo, cervella, sangue, pesce, crostacei, insetti, uccelli, uova, semi, radici e vegetali appena spuntati. Vietati invece pasta, riso, pane, olio e derivati del latte.
A partire dagli anni Settanta si è diffusa, soprattutto grazie alle testimonianze di alcuni personaggi del mondo dello spettacolo e chef di successo, l’idea che la paleodieta si associasse a un migliore stato di salute. Ad esempio, questa “dieta dell’uomo delle caverne” è stata proposta come strategia per la prevenzione del diabete di tipo 2.
Da dove nasce la teoria della paleodieta?
All’inizio degli anni Trenta un dentista statunitense di nome Weston A. Price, ormai sessantenne, decise di girare il mondo per studiare il rapporto tra salute e dieta nelle comunità che vivevano ancora come nell’età della pietra.
In seguito ad alcune osservazioni Price si convinse che in queste popolazioni – e quindi, per deduzione logica, in quelle dei nostri antenati – alcune patologie, come le carie e la tubercolosi, non esistessero. Decise, quindi, che questo fenomeno era dovuto al tipo di alimentazione che caratterizzava l’esistenza umana prima dell’introduzione dell’allevamento e dell’agricoltura.
Il dentista riportò poi le sue teorie in un libro, dal titolo Nutrition and Physical Degeneration, che ebbe un discreto successo all’interno della comunità scientifica: alcuni, addirittura, definirono Price “il Charles Darwin della nutrizione”[1]. Altri invece liquidarono le sue teorie come “poco scientifiche”. Tuttavia dopo la sua morte, avvenuta nel 1948, queste scomparvero gradualmente dal panorama scientifico.
Almeno fino a quando, negli anni Settanta, una signora di nome Sally Fallon, appassionata di nutrizione, ritrovò il libro di Price in una biblioteca di Washington e ne rimase folgorata. Da quel momento, Fallon si è impegnata a diffondere la teoria della paleodieta e l’idea del “buon selvaggio”, fondando addirittura un’organizzazione ad hoc, la Weston A. Price Foundation, e pubblicando alcuni libri in cui promuove, oltre alla paleodieta, l’omeopatia, l’agricoltura biodinamica e lo scetticismo nei confronti dei vaccini [2].
A cosa si deve il collegamento tra paleodieta e diabete?
A causa della confusione esistente su quale sia la migliore alimentazione per i soggetti affetti da intolleranza all’insulina e diabete di tipo 2, derivante dai risultati spesso contrastanti di diversi studi osservazionali, alcuni ricercatori hanno provato a risolvere la questione utilizzando un approccio evolutivo.
Secondo alcuni, infatti, la dieta paleolitica poteva risultare, per le sue caratteristiche, particolarmente salutare per i pazienti diabetici. Tre studi, in particolare, ne hanno valutato l’approccio in questa classe di pazienti, individuando un effetto positivo in termini di una maggiore tolleranza all’insulina, di un migliore controllo glicemico e di un ridotto rischio cardiovascolare [3,4,5].
Tuttavia, come sottolineato successivamente da altri ricercatori, in tutti questi casi il numero di pazienti considerati non era sufficientemente alto da permettere di trarre conclusioni definitive [6].
Ma quindi, la paleodieta funziona o non funziona per prevenire il diabete?
Nel 2016 lo specialista di diabete Sof Andrikopoulos ha pubblicato un editoriale sulla rivista Medical Journal of Australia in cui sosteneva che le evidenze scientifiche attualmente disponibili non permettono di concludere che la paleodieta sia in qualche modo utile nella prevenzione del diabete di tipo 2 [7]. Al contrario, una ricerca pubblicata dal suo gruppo di ricerca ha dimostrato che una dieta caratterizzata da un consumo elevato di grassi e ridotto di carboidrati – come appunto la paleodieta – si associa, in una campione di topi obesi e pre-diabetici, a un aumento del peso corporeo e un peggioramento dell’intolleranza all’insulina [8]. Di conseguenza, Andrikopoulos e colleghi concludono che un pattern alimentare come quello proposto dai sostenitori della paleodieta non sia consigliabile per i pazienti pre-diabetici e diabetici.
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