Da dove nasce questa idea?
Molte persone, davanti a una diagnosi di cancro o nella prospettiva di poterla un giorno ricevere, sembrano temere le eventuali cure quasi più della malattia stessa.
Infatti a causa del suo meccanismo di azione mirato alle cellule in rapida crescita, la chemioterapia, insieme alle cellule malate, può uccidere anche alcuni tipi di cellule sane che hanno la caratteristica di replicarsi molto spesso per rinnovare continuamente alcuni tessuti dell’organismo.
Per questo può provocare effetti collaterali davvero pesanti: alcuni molto fastidiosi, come la nausea o il vomito, altri che provocano disagio anche rispetto alla propria immagine individuale e nella relazione con gli altri, come la perdita dei capelli, o altri ancora che addirittura possono essere rischiosi per la vita, come il calo del numero di cellule del sangue che può seguire ad alcuni trattamenti, esponendo il paziente a pericolose infezioni.
Sono farmaci definiti in maniera esplicita come “tossici”, per i quali occorre attenersi a una rigorosa serie di precauzioni: comprensibile che inquieti l’idea di farseli iniettare nelle vene.
Inoltre è vero che – per il loro stesso meccanismo di azione – alcuni di questi medicinali, anche a distanza di anni dalla fine dei trattamenti stessi, possono a loro volta indurre la formazione di un secondo tumore, soprattutto leucemie.
Infine, esistono molti tumori per i quali la chemioterapia è usata per prolungare la sopravvivenza del paziente o per ridurre i sintomi, ma non è in grado di curarlo in maniera definitiva. Per questo, alla fine, si può avere l’impressione che l’esito infausto sia stato provocato dalle cure, che invece potrebbero averlo ritardato, anche se non sono riuscite a evitarlo.
Che cosa la smentisce?
I dati epidemiologici ci mostrano che, in Italia, la probabilità di essere vivi cinque anni dopo una diagnosi di cancro è aumentata di quasi 8 punti percentuali nelle donne e di oltre 10 negli uomini che si sono ammalati nel 2011, rispetto a chi ha scoperto un tumore nel 1994. Questo aumento resta sostanzialmente inalterato a dieci anni dalla diagnosi.
Il miglioramento nella prognosi della malattia si nota anche restringendo il confronto a quanto avvenuto negli anni Duemila, ed è ancora più notevole se si risale ai decenni precedenti la fine del secolo scorso: questo successo dipende da diagnosi più precoci, interventi chirurgici più efficaci e meno invasivi, terapie di appoggio, trattamenti radioterapici e, negli ultimi anni, anche farmaci innovativi, ma una gran parte del merito va senza dubbio alla tanto temuta e criticata chemioterapia.
Malattie come i tumori del testicolo, alcuni linfomi e molte leucemie infantili, infatti, oggi guariscono nella maggior parte dei casi proprio grazie a trattamenti chemioterapici che uniscono farmaci diversi per eliminare le cellule tumorali dall’organismo.
I ragazzi e gli uomini a cui viene diagnosticato un tumore del testicolo, grazie a queste cure, oggi guariscono praticamente tutti.
Se cinquant’anni fa meno della metà circa di coloro a cui veniva diagnosticato un linfoma di Hodgkin era ancora vivo dopo dieci anni, e si poteva quindi considerare guarito, oggi l’evoluzione della malattia è favorevole per più di 8 pazienti su 10.
Per le leucemie infantili, poi, la situazione si è esattamente capovolta rispetto ai primi anni Settanta, quando meno di un piccolo paziente su quattro sopravviveva alla malattia: oggi è il contrario, e sono almeno tre su quattro che dopo dieci anni dalla diagnosi possono considerarsi guariti e spesso riprendere una vita del tutto normale.
Questi risultati dipendono anche da una migliore classificazione dei diversi tipi di malattia che permette di affrontarli in maniera più mirata, dalla messa a punto e al perfezionamento di trattamenti come i trapianti di midollo osseo e, ultimamente, per alcuni casi selezionati, anche dall’introduzione di nuovi farmaci a bersaglio molecolare e terapie innovative; ma la prima, vera, grande svolta si è ottenuta grazie alla chemioterapia, in cui tra l’altro la ricerca oncologica italiana ha fatto scuola nel mondo.
Per altri tipi di tumori i risultati sono meno clamorosi, ma hanno contribuito ad aumentare la sopravvivenza globale per cancro. In tutti i casi si tratta di soppesare pro e contro, sia in termini di durata sia di qualità della vita, con o senza chemioterapia: per alcune situazioni, come quelle sopra descritte, i vantaggi della chemioterapia a medio e lungo termine sono indiscutibili, in altre, invece, possono essere meno certi.
Per questo prima di intraprendere il trattamento è giusto discutere con il proprio medico gli scopi che la cura si pone: una vera e propria guarigione, un allungamento della sopravvivenza, la riduzione del rischio di metastasi, il rallentamento della crescita del tumore o il controllo dei sintomi che l’espansione della massa provoca, e così via. Sulla base di questi dati, della propria condizione individuale di vita, dei propri valori, delle proprie necessità, si potrà condividere la scelta di intraprendere il trattamento, senza subirlo, ma sapendo che i disturbi che provoca sono un male necessario finalizzato a un obiettivo su cui medico e paziente hanno fondato un’alleanza terapeutica.
Perché ci si crede?
Soprattutto quando si parla di valutare i rischi, la nostra mente è programmata in modo da dare più importanza agli eventi immediati che a quelli a medio e lungo termine: vediamo con i nostri occhi o proviamo sulla nostra pelle che dopo un’infusione di chemioterapia in alcuni casi si può stare male, mentre l’aumento di sopravvivenza che si registra negli anni è in fondo un numero, che non colpisce la nostra emotività e che a livello individuale è difficile ricondurre a quel determinato ciclo di trattamento.
L’idea di iniettare nell’organismo sostanze potenzialmente tossiche e che provocano malessere, in vista di un possibile futuro miglioramento, nei confronti di una malattia che talvolta non provoca ancora disturbi ma è solo una “macchia” nelle immagini radiografiche, va quindi contro il nostro naturale istinto di autoprotezione e sopravvivenza.
Anche l’abusata metafora della “guerra contro il cancro”, che vede l’organismo come un campo di battaglia destinato a subire le conseguenze dello scontro tra le proprie cellule “ribelli” – che in fondo però sono parte di sé – e il “veleno” introdotto dall’esterno per sterminarle, potrebbe aver contribuito ad aggiungere un’ostilità inconscia nei confronti di queste cure.
Infine, è facile cadere nell’errore di confondere un’associazione temporale con un rapporto di causa ed effetto: in altre parole, il decesso di un malato di cancro, che segue nel tempo alla chemioterapia, non è necessariamente provocato da questa ma più probabilmente dalla malattia di base, che i farmaci non sono stati in grado di eliminare del tutto ma solo di rallentare o tenere sotto controllo per un po’.
Ogni mese o anno in più di vita libera dalla malattia o dai suoi sintomi, in fondo, è invece vissuto come una ripresa, o una continuazione della “normalità”, per la quale è difficile riconoscere il merito a una miscela di medicinali definiti “tossici” perfino da chi li produce e li prescrive.
Capire l’origine di queste paure e guardare alla forza delle prove scientifiche può però aiutare a fare, nei singoli casi, la scelta migliore per la cura di se stessi o dei propri cari.
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