La cannabis “light” fa comunque male?

4 Ottobre 2019 di Roberta Villa

Che cos’è la cannabis “light”?

La resina e le infiorescenze femminili di alcune specie di cannabis contengono sostanze psicotrope utilizzate da millenni. Conoscevano e sfruttavano le sue proprietà stupefacenti le popolazioni indù, nepalesi e arabe, da cui sembra derivi il nome “hashish”, che in arabo significa “erba”. È a partire dalle infiorescenze della pianta di cannabis infatti che, con diverse tecniche, viene prodotto questo materiale bruno, da solido a colloso, che in Italia è chiamato anche “fumo”. L’hashish ha una concentrazione di principi attivi molto più elevata rispetto alla marijuana (chiamata anche “erba”, o ganja, dal termine hindi per “erba”) ricavata dalle infiorescenze essiccate delle piante femminili di canapa.

Entrambe sono per lo più fumate a scopo ricreativo, e rappresentano una delle sostanze voluttuarie più diffuse in Occidente, dove sono note fin dai tempi di Erodoto, che racconta nelle sue “Storie” come gli Sciti ne consumassero per mettere allegria nei banchetti e nei riti funebri.

Come spiegato nella scheda relativa all’uso medico della cannabis, la cannabis contiene decine di principi attivi, detti cannabinoidi, tra cui rivestono particolare rilievo il cannabidiolo (CBD), di cui sono ricchi soprattutto gli oli di canapa, e tetraidrocannabinolo (THC), la sostanza a cui vanno attribuiti gli effetti caratteristici della cannabis usata a scopo voluttuario, dall’euforia all’aumento dell’appetito, dalle vertigini al disorientamento.

Varie specie e tipi di cannabis possono però contenere concentrazioni diverse di THC: sotto lo 0,2% si parla più propriamente di canapa, dedicata a vari usi, per esempio tessile o industriale; al di sopra, di erbe da cui si ottiene la marijuana, che a sua volta può essere più o meno ricca di sostanza psicotropa.

Per cannabis light si intendono i prodotti della pianta Cannabis sativa a bassa concentrazione di THC. Per essere definiti “light”, questi prodotti dovrebbero contenere meno dello 0,2% di THC, ma sono di fatto tollerati livelli fino allo 0,6%. Questi dovrebbero essere comunque insufficienti per dare alterazioni psichiche, siano essi fumati (marijuana light) o ingeriti sotto varie forme, dalle tisane ai biscotti, dagli energy drink ai cioccolatini, dalle grappe ai caffè.

Alla bassa concentrazione di THC corrisponde una più elevata quota di cannabidiolo (CBD), che non ha un’azione psicoattiva e contribuisce a limitare gli effetti indesiderati di THC. L’olio di CBD è ricco di acidi grassi omega 6 e omega 3, per cui viene venduto come integratore. Gli si attribuiscono inoltre svariate proprietà benefiche, di cui tuttavia mancano ancora solide prove scientifiche e per cui si rimanda alla scheda sull’uso della cannabis in campo medico.

Dal dicembre 2016, in seguito alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della legge 242 [1], la vendita ai maggiorenni di questi prodotti è stata considerata lecita, sia online, sia attraverso l’apertura di centinaia di negozi dedicati su tutto il territorio nazionale.

Perché se ne parla?

Nell’aprile 2018 il Consiglio superiore di sanità ha espresso un parere sfavorevole alla libera commercializzazione di questi prodotti, ritenendo che non se ne possa escludere la pericolosità [2].

Le ragioni addotte dagli esperti consultati dal Ministero sono diverse:

  • nonostante la bassa concentrazione di THC nella cannabis light, esistono molti fattori che ne rendono variabile l’assorbimento e la quota finale circolante nel sangue;
  • lo stesso THC e altre sostanze contenute nella cannabis light possono facilmente accumularsi nei tessuti dell’organismo, in particolare nel grasso e nel cervello, raggiungendo concentrazioni molto superiori a quelle rilevate nel sangue;
  • il consumo avviene al di fuori di ogni controllo, per cui non è possibile verificare quanto prodotto effettivamente sia assunto, compensando con la quantità la scarsa concentrazione di THC;
  • non sono stati considerati i possibili rischi del consumo in condizioni particolari, come la gravidanza o l’allattamento, né gli effetti in presenza di malattie, in associazione a farmaci o le conseguenze sull’attenzione, per esempio alla guida.

Nel suo parere, inoltre, il Consiglio superiore di sanità ha anticipato un’obiezione ripresa poi nel maggio 2019 dalla Corte di Cassazione, quando ha dichiarato illegale la vendita di cannabis light nei negozi o online.

La sua commercializzazione, indipendentemente dalla concentrazione di THC, secondo la Suprema Corte è da considerare reato, dal momento che questa sostanza è iscritta nell’elenco degli stupefacenti. La legge 242/2016 infatti non riguarda il consumo di prodotti della canapa a scopo voluttuario, e il limite del 2% di concentrazione di THC si riferisce al limite consentito per la coltivazione, non in generale alla vendita, che secondo la Cassazione dovrebbe essere autorizzata solo per “alimenti e cosmetici,… semilavorati come fibre,… oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, … per la bonifica di siti inquinati, le coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati o destinate al florovivaismo”.

In ogni caso non per prodotti con “effetto drogante”, ed è su questa espressione che si dibatte: per definizione i prodotti in vendita non dovrebbero avere proprietà voluttuarie ma, oltre a chiedersi per quale ragione allora dovrebbero essere utilizzati, resta la difficoltà di accertarne l’effettiva concentrazione di THC, affidata alla parola dei produttori e a sporadici controlli a campione dei NAS. Nei negozi è possibile acquistare inoltre anche i semi per la coltivazione di queste piante, a scopo “collezionistico”, sebbene la coltivazione della cannabis per usi personali, al di fuori delle colture autorizzate, resti a tutt’oggi reato.

Perché allora è stata promulgata la legge?

Secondo la lettura della Cassazione, la legge 242 promulgata nel 2016 aveva quindi un altro obiettivo e riguardava un altro ambito. Come precisato fin dall’articolo 1, la normativa si applica infatti alle coltivazioni di canapa, delle varietà di piante agricole che non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Suo scopo era piuttosto il sostegno e la promozione della coltura della canapa e della sua filiera.

Fin dall’antichità, le resistenti fibre estratte dal fusto della canapa, cioè della pianta Cannabis sativa, sono infatti state utilizzate per ottenere corde, carta e tessuti. I semi e l’olio sono stati usati, e lo sono ancora, a scopo alimentare, per gli esseri umani e per gli animali.

Le proprietà di questa pianta, e i possibili utilizzi anche industriali delle sue diverse parti, sono sconfinati: negli anni Trenta Henry Ford progettò e realizzò addirittura un’auto, la Hemp Body car, interamente costituita di materiali derivati dalla canapa.

Cannabis sativa, facile da coltivare e che conclude il suo ciclo vegetativo in 120 giorni, ha rappresentato per secoli una grande risorsa anche per l’agricoltura, perché richiede poca acqua e contribuisce a fertilizzare il terreno.

Le norme che hanno vietato la coltivazione a scopo voluttuario della canapa indiana (Cannabis indica), difficile da distinguere da quella tradizionalmente coltivata in Occidente, ma molto più ricca di THC, hanno contribuito insieme ad altri fattori a smantellare le coltivazioni di Cannabis sativa, per le quali all’inizio del secolo scorso l’Italia era leader mondiale, seconda solo alla Russia per superficie coltivata e produzione complessiva [3].

Recentemente, tuttavia, la coltura di canapa è stata rivalutata e incoraggiata anche a livello europeo, in quanto in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli, della desertificazione e alla perdita di biodiversità. Il suo uso, quando possibile, al posto del cotone nell’industria tessile, così come al posto del legname per la produzione di carta, si associa a un consumo molto inferiore di acqua, favorendo la sostenibilità. La ricerca ha inoltre portato nuove prospettive di utilizzo della canapa nel campo dei biocarburanti, delle bioplastiche e della produzione di materiali biologici per l’edilizia. È a questi e ad altri usi, compresi quelli finalizzati alla ricerca, che la legge si riferiva, non al consumo voluttuario.

Argomenti correlati:

Medicina

Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
Tutti gli articoli di Roberta Villa