In Italia si muore di Covid-19 più che negli altri Paesi?

14 Ottobre 2022 di Roberta Villa

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L’Italia ha pagato un prezzo particolarmente alto in termini di vite umane rispetto ad altri Paesi simili. All’autunno del terzo anno di pandemia arriviamo infatti con un carico di circa 180.000 decessi confermati da Covid-19, quasi 3.000 per milione di abitanti. Peggio di noi, tra i grandi Paesi dell’Europa Occidentale, fa solo la Grecia. Quella italiana è quindi effettivamente una mortalità molto elevata, inferiore, tra i grandi Paesi ad alto reddito, solo a quella degli Stati Uniti e del Regno Unito. Siamo anche ben oltre la media europea, sebbene a questa stima contribuiscano alcuni Stati membri dell’Est, come la Bulgaria, con i dati pandemici tra i peggiori al mondo [1,2].

Ovviamente queste classifiche globali non possono tenere conto della realtà di molti Paesi a medio, basso e bassissimo reddito, dove la raccolta e la trasmissione dei dati non possono essere considerate affidabili. Lo stesso vale per i Paesi il cui governo non garantisce trasparenza. Mancano per esempio dati attendibili sulla Cina, dove tutto ha avuto inizio.

Dottore, ma non sarà che li contiamo male?

A far variare queste classifiche possono essere anche le modalità con cui si contano i decessi, che talvolta si basano su criteri leggermente differenti. Il punto più controverso riguarda le modalità con cui si distinguono i casi in cui la malattia è stata la causa evidente del decesso, quelli in cui ha solo contribuito all’esito infausto o quelli in cui la positività al tampone può sembrare un riscontro occasionale.

In Italia si adottano i criteri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dai Centri Europei per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie, secondo i quali occorre riconoscere l’infezione come causa o concausa della morte. In particolare:

  • il decesso deve essere avvenuto in un paziente risultato in precedenza positivo al test molecolare per Covid-19;
  • il quadro clinico e gli esiti degli esami strumentali devono essere compatibili con la malattia Covid-19;
  • non ci deve essere un’altra chiara causa di morte diversa da Covid-19;
  • non ci deve essere stata una guarigione completa tra la malattia da Covid-19 e il decesso.

È evidente quindi che il soggetto giovane vittima di un incidente stradale, sottoposto a tampone all’arrivo in pronto soccorso e poi deceduto in seguito ai traumi riportati, non potrà in alcun modo rientrare in questa definizione. Più controversi possono essere i casi in cui Covid-19 agisce da concausa, per esempio in un paziente oncologico immunodepresso o in un anziano fragile malato di cuore, con un’aspettativa di vita di base inferiore alla norma, ma che senza il colpo di grazia dell’infezione sarebbero potuti sopravvivere altri mesi o anni.

Per capire quanto i morti registrati in Italia siano deceduti “con” o “per” Covid-19, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha effettuato sia per il 2020 sia per il 2021 l’analisi approfondita di un campione significativo di cartelle cliniche. Per entrambi gli anni di pandemia, i ricercatori dell’Istituto hanno confermato, su un campione di oltre 6.000 casi, che il 90% circa di quelli registrati come decessi da Covid-19 sono da considerare effettivamente causati dall’infezione, anche se in circa tre quarti dei casi erano presenti altre cause [3].

Alle stime di mortalità da Covid-19 andrebbero poi aggiunte le persone che, soprattutto all’inizio della pandemia, morivano a casa senza essere sottoposte a un test, e che quindi sfuggivano, e in piccola parte ancora oggi sfuggono, alla registrazione.

Dottore, può spiegarmi meglio?

Per aggirare queste difficoltà nella definizione dei casi e delle cause dei singoli decessi, si può fare ricorso alla cosiddetta “mortalità in eccesso”, un dato che esprime quanto la mortalità per qualunque causa negli anni della pandemia abbia superato quella attesa in base alla media degli anni precedenti.

Tenendo conto di tutti coloro che sono morti per qualunque ragione, questo dato è indipendente dalla capacità del sistema di confermare la diagnosi di Covid-19. Include quindi anche le vittime del sovraccarico dei servizi sanitari, per esempio per i ritardi di intervento nei pronto soccorso o per la difficoltà di ricevere visite o esami per altre malattie. Oppure i morti, per esempio, per infarto o ictus, il cui rischio aumenta nelle settimane successive all’infezione, ma in cui non è possibile nel singolo caso stabilire con certezza un rapporto di causa ed effetto con un virus ormai debellato.

In questo calcolo rientrano poi anche le conseguenze delle misure di salute pubblica prese per contenere l’epidemia: per esempio, durante i periodi di lockdown, eventuali decessi in più dovuti a suicidio, violenza domestica o abuso di alcol e, viceversa, il crollo del numero di vittime per incidenti stradali. Fattori che, seppure indirettamente, possono essere conteggiati come conseguenza della pandemia perché non si sarebbero verificati in sua assenza.

In tutto il mondo, dal primo gennaio 2020 al 31 dicembre 2021, prima quindi che i vaccini fossero distribuiti in maniera massiccia, si stima che il numero di morti in eccesso rispetto a quelli attesi sia stato oltre il triplo di quelli ufficialmente attribuiti a Covid-19 [4]. Il maggior numero di vittime in assoluto si sarebbe registrato in India, che da sola nei primi due anni di pandemia ha visto 4 milioni di morti più delle attese, seguita da Stati Uniti e Russia. A seconda delle diverse stime, l’Italia conterebbe tra 2020 e 2021 dai 160.000 ai 259.000 morti in eccesso, più di Francia, Germania e altri Paesi con simile livello di sviluppo. L’ampia variabilità di questo dato, tuttavia, ottenuto con diversi metodi di raccolta e analisi, impone cautela nel maneggiarlo, anche quando proviene da fonti autorevoli.

In molti Paesi le curve della mortalità in eccesso nei due anni e mezzo passati seguono l’andamento dei contagi e, in senso inverso, delle vaccinazioni. In Italia, per esempio, nel 2021, più dell’80% dei decessi si è verificato nei primi 4 mesi dell’anno, prima che la campagna decollasse a pieno ritmo [5].

Dottore, tornando all’Italia cosa può dirmi allora?

Accertato che la mortalità in Italia è effettivamente più alta rispetto ad altri Paesi simili dell’Europa occidentale, occorre chiedersi il perché.

La prima spiegazione, seppure insufficiente a chiarire il fenomeno, chiama in causa la sfortuna. Nel 2020 l’Italia fu infatti il primo Paese occidentale colpito da un’ondata incontrollabile di contagi da Covid-19, in particolare nelle regioni del Nord. Anche per questo, nel 2020, secondo l’ISS, il numero totale di morti per qualunque causa in Italia è stato il più alto mai registrato dalla Seconda guerra mondiale, quasi 750.000, oltre il 15% in più dell’atteso. Perché, però, ci siamo mantenuti ai posti più alti della classifica anche dopo, nonostante le severe misure messe in atto dal governo, l’adesione agli stessi protocolli terapeutici e la fornitura di nuovi farmaci come agli altri Paesi ad alto reddito, e una campagna vaccinale tra le più riuscite al mondo?

Per rispondere a questo enigma sono stati presi in considerazione molti altri possibili fattori. Alcuni gruppi di ricerca hanno studiato la presenza nella nostra popolazione di varianti genetiche che favoriscono un’evoluzione più grave della malattia, ma queste ipotesi genetiche non sono mai state confermate in maniera definitiva [6]. Altri hanno sottolineato le innegabili difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale, soprattutto in termini organizzativi e di risorse umane, con particolare riguardo alla carenza di infermieri e all’assistenza territoriale inadeguata, soprattutto in alcune realtà. Difficile pensare che questo non abbia contribuito.

Uno dei fattori più importanti, forse il principale, è però l’età media avanzata della popolazione italiana. Se, a parità di numero di casi, le persone colpite sono più anziane, si avranno in totale più decessi. È vero che una nazione più “anziana” della nostra, come il Giappone, è tra quelle che hanno riportato il minor numero di vittime, ma ciò potrebbe dipendere dal fatto che ha avuto prima di tutto un numero molto inferiore di casi, grazie a misure di contenimento facilitate dall’isolamento fisico e dall’abitudine delle persone a portare sempre mascherine, anche prima della pandemia.

Ci sono poi importanti fattori sociodemografici e culturali. Nei paesi del Nord Europa baci, abbracci e altre forme di contatto fisico sono meno comuni negli incontri occasionali che da noi, ma soprattutto sono molto diversi i nuclei familiari e le loro abitudini: le famiglie allargate non si incontrano quanto in Italia, i giovani tendono a lasciare l’abitazione dei genitori molto prima e non è così frequente che i nonni vivano con i nipoti, o comunque si occupino dei più piccoli. Questo esporrebbe maggiormente gli anziani al rischio di contagio.

Dobbiamo tenere in considerazione anche qualcos’altro?

Per capire infine se le ragioni del carico di vittime in Italia dipendono da una maggiore esposizione dei più fragili o dal fatto che, una volta contagiati, muoiono di più (per fattori genetici, anagrafici o perché sono curati meno bene), si può fare riferimento a un altro indice, quello di letalità – in inglese Case Fatality Rate (CFR) – che stima quante persone perdano la vita tra tutte quelle malate.

Quest’ultimo è più attendibile dell’indice basato su tutti gli infetti (IFR) perché è più facile individuare e registrare chi manifesta sintomi rispetto agli infetti asintomatici, che restando sotto traccia possono alterare questa stima facendocela sopravvalutare.

Per esempio, durante la prima ondata, alla fine della primavera 2020, la letalità sui casi registrati in Italia sembrava altissima, ma il dato era gonfiato dal fatto che in quel periodo era molto difficile effettuare un tampone e migliaia di persone ammalate di forme lievi o moderate non venivano registrate. Parlare di quasi il 20% di letalità, quindi, non significava davvero che moriva un paziente su 5 di quelli contagiati, ma solo di quelli che venivano riconosciuti perché arrivavano in ospedale con forme già gravi, che rappresentavano solo la punta dell’iceberg.

L’aumento del numero medio giornaliero di tamponi effettuati, che permette di identificare anche le forme più lievi, ha contribuito quindi, insieme al miglioramento delle cure e soprattutto al ruolo dei vaccini, a far sì che in Italia la letalità non standardizzata per età (CFR grezzo), sia scesa a giugno 2022 allo 0,1%, in linea con quella di altri Paesi [7].

I fattori in gioco comunque sono moltissimi, e solo studiandoli ancora e a fondo si potranno imparare lezioni che ci aiuteranno a trovare il modo di convivere con il virus, riducendo al minimo il numero delle sue vittime.

Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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