In Italia si muore di Covid-19 più che negli altri Paesi? [Versione estesa]

14 Ottobre 2022 di Roberta Villa

Questa è una versione di approfondimento della scheda “In Italia si muore di Covid-19 più che negli altri Paesi?

Guardando i dati globali sull’impatto della pandemia nazione per nazione salta all’occhio il prezzo particolarmente alto pagato dall’Italia in termini di vite umane rispetto ad altri Paesi simili. All’autunno del terzo anno di pandemia arriviamo infatti con un carico di circa 180.000 decessi confermati da Covid-19, quasi 3.000 per milione di abitanti. Peggio di noi, tra i grandi Paesi dell’Europa Occidentale, fa solo la Grecia, che ha sofferto soprattutto l’ultima ondata estiva di Omicron, quando gran parte delle misure di contenimento erano ormai state sollevate.

Quella italiana è quindi effettivamente una mortalità molto elevata, che, tra i grandi Paesi ad alto reddito, è inferiore solo a quella degli Stati Uniti e del Regno Unito, contro una media dei Paesi ad alto reddito di 2.148 e dell’Unione europea di poco sopra i 2.500, sempre per milione di abitanti.

Dottore, come si calcola la media europea?

Alla media europea contribuiscono realtà molto diverse. Alcune sono riuscite a superare finora la pandemia con pochissime perdite: la Danimarca, per esempio, conta circa 1.200 vittime per milione di abitanti e la Germania ne è uscita con meno di 1.800. Viceversa, a peggiorare il dato medio, contribuiscono gli Stati membri dell’est, che dopo il Perù – il peggiore al mondo con più di 6.500 decessi per milione di abitanti – occupano i primi posti della classifica globale stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: dalla Bulgaria (più di 5.400 decessi per milione di abitanti) all’Ungheria (4.850), dalla Croazia (oltre i 4.000) alla Repubblica ceca e alla Slovacchia (intorno ai 3.800). Segue a ruota la Repubblica di San Marino, dove sono morte di Covid-19 meno di 120 persone, che su una popolazione di circa 34.000 abitanti si traduce però in quasi 3.500 vittime per milione, il doppio del Principato di Monaco e molto più del Liechtenstein, che hanno un numero di abitanti di poco superiore [1,2].

Nel continente europeo, ma al di fuori dell’Unione, hanno registrato pochissime vittime l’Islanda (575) e la Norvegia (poco più di 750 per milione di abitanti), mentre la Svezia, paragonabile per molti aspetti agli altri Paesi scandinavi, sfiora i 2.000, il doppio della confinante Finlandia. Meglio di noi e della media europea fa anche la Svizzera, con 1.600 decessi per milione di abitanti.

Ovviamente queste classifiche sottostimano realtà, come quelle di molti Paesi a medio, basso e bassissimo reddito, in cui la sorveglianza e mappatura dei casi, prima ancora della raccolta e della trasmissione dei dati, non possono essere considerati affidabili, oppure quelli in cui il regime politico al governo non garantisce trasparenza nella loro comunicazione a livello internazionale. Mancano per esempio i dati della Cina, dove tutto ha avuto inizio.

Dottore, ma non sarà che li contiamo male?

Possibili anomalie di queste classifiche possono dipendere anche dalle modalità con cui si contano i decessi, che talvolta si basano su criteri leggermente differenti e valutano in maniera diversa i casi in cui la malattia è stata la causa evidente del decesso e quelli in cui ha solo contribuito all’esito infausto.

In Italia si adottano i criteri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dai Centri Europei per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), secondo i quali occorre riconoscere l’infezione come causa o concausa della morte. In particolare:

  • il decesso deve essere avvenuto in un paziente risultato in precedenza positivo al test molecolare per Covid-19;
  • il quadro clinico e gli esiti degli esami strumentali devono essere compatibili con la malattia;
  • non ci deve essere un’altra chiara causa di morte diversa da Covid-19;
  • non ci deve essere stata una guarigione completa tra la malattia da Covid-19 e il decesso.

È evidente quindi che il soggetto giovane vittima di un incidente stradale, sottoposto a tampone all’arrivo in pronto soccorso e poi deceduto in seguito ai traumi riportati, non potrà in alcun modo rientrare in questa definizione.

Più controversi possono essere i casi in cui Covid-19 agisce da concausa, per esempio in un paziente oncologico immunodepresso o in un anziano fragile malato di cuore, con un’aspettativa di vita di base inferiore alla norma, ma che senza il colpo di grazia dell’infezione sarebbero potuti sopravvivere altri mesi o anni.

Per capire quanto i morti registrati in Italia siano deceduti “con” o “per” Covid-19, l’Istituto Superiore di Sanità ha effettuato sia per il 2020 sia per il 2021 l’analisi approfondita di un campione significativo di cartelle cliniche. Per entrambi gli anni di pandemia i ricercatori dell’Istituto hanno confermato che il 90% circa dei casi registrati come decessi da Covid-19 sono da considerare effettivamente causati dall’infezione. Sulle 6.530 schede di morte relative al 2021, in particolare, Covid-19 è stata l’unica causa responsabile del decesso nel 23% dei casi, mentre nel 29% era presente una concausa. In quasi la metà (48%), la morte è stata provocata dall’associazione di più cause [3].

Se non proprio tutti i morti registrati a causa di Covid-19 devono al virus la loro fine, occorre d’altra parte considerare le persone che, soprattutto all’inizio della pandemia, morivano a casa senza essere sottoposte a un test, e che quindi sfuggivano, e in piccola parte ancora oggi sfuggono, alla registrazione. Come quantificare questa componente? La sottostima si può valutare dal rapporto tra il tasso di mortalità in eccesso e la mortalità ufficialmente attribuita a Covid-19.

Dottore, può spiegarmi meglio?

Per aggirare le difficoltà di definizione dei casi e delle cause dei singoli decessi, sempre più spesso si sta facendo ricorso alla cosiddetta “mortalità in eccesso”, che esprime quanto la mortalità negli anni della pandemia ha superato quella che ci si potrebbe aspettare in condizioni normali, sulla media degli anni precedenti.

Questo dato comprende tutti i decessi per qualunque causa, per cui è indipendente dalla capacità del sistema di confermare la diagnosi di Covid-19. Include quindi anche le vittime del sovraccarico dei servizi sanitari (per esempio per i ritardi di intervento nei pronto soccorsi o la difficoltà di ricevere visite o esami per altre malattie) oppure decessi dovuti a condizioni (per esempio eventi cardiovascolari o tromboembolici), il cui rischio aumenta nelle settimane successive all’infezione, ma in cui non è possibile nel singolo caso stabilire con certezza un rapporto di causa ed effetto.

In questo calcolo rientrano poi anche le conseguenze delle misure di salute pubblica prese per contenere l’epidemia: per esempio, durante i periodi di lockdown, eventuali decessi in più dovuti a suicidio, violenza domestica o abuso di alcol e, viceversa, il crollo del numero di vittime per incidenti stradali. Fattori che, seppure indirettamente, possono essere conteggiati come conseguenza della pandemia perché non si sarebbero verificati in sua assenza.

Di che numeri parliamo?

Un rapporto pubblicato su Lancet ha stimato che in tutto il mondo, dal primo gennaio 2020 al 31 dicembre 2021, prima quindi che i vaccini fossero distribuiti in maniera massiccia, sia stato di 18,2 milioni il numero di morti in eccesso rispetto a quelli attesi, oltre il triplo di quelli ufficialmente attribuiti a Covid-19 [4]. A livello globale, in tutte le fasce di età, si stima che nei primi due anni della pandemia si siano verificati 1.203 decessi in più ogni milione di abitanti.

Il maggior numero di vittime in assoluto si sarebbe registrato in India, che da sola nei primi due anni di pandemia ha visto 4 milioni di morti più delle attese, seguita da Stati Uniti e Russia che hanno entrambi superato la soglia del milione di morti in più del previsto, a cui vanno aggiunti quelli provocati nel 2022 dalle altissime ondate della variante Omicron. Con i suoi 259.000 morti in eccesso stimati da questi ricercatori al 31 dicembre 2021, l’Italia si posizionerebbe tra i Paesi che nei primi due anni hanno superato, secondo le stime pubblicate su Lancet, i 250.000 morti in più, unica nazione ad alto reddito dopo Bangladesh (413.000), Perù (349.000), Sudafrica (302.000), Iran (274.000) ed Egitto (265.000). Per fare un paragone con paesi simili al nostro, in Francia sarebbero stati 155.000 e in Germania 203.000.

Altri dati, come quelli dell’OMS riportati da Our World in Data, stimano per il nostro Paese una mortalità in eccesso di minore entità, ma comunque importante, intorno ai 160.000 decessi per i primi due anni di pandemia. Secondo questi calcoli, per la Francia e il Regno unito i morti in eccesso sarebbero rispettivamente 81.000 e quasi 149.000, meno di quelli ufficialmente attribuite a Covid-19, mentre la Germania quasi 195.000, supera i 111.000 morti ufficiali di Covid-19, sempre al 31 dicembre 2021.

Come mai i dati non sono tutti uguali?

Come si può notare, ci sono forti discrepanze tra le diverse fonti, anche autorevoli, per cui occorre cautela nel maneggiare questi dati. Se dal punto di vista scientifico queste differenze sono facilmente giustificate dai diversi metodi di raccolta e analisi dei dati, dal punto di vista politico possono facilmente essere strumentalizzate da chi voglia difendere o attaccare il governo della pandemia nell’uno o nell’altro Paese.

Questi dati d’altra parte mostrano anche l’importanza dei vaccini. In molti Paesi le curve della mortalità in eccesso nei due anni e mezzo passati seguono infatti l’andamento delle grandi ondate dei contagi, ma tendono a calare a mano a mano che la popolazione veniva vaccinata. In Italia, per esempio, nel 2021, più dell’80% dei decessi si è verificato nei primi 4 mesi dell’anno, prima che la campagna decollasse a pieno ritmo [5].

Tra i fattori da cui non si può prescindere c’è l’ampiezza della popolazione dei diversi Paesi, che rende poco significativo confrontare per esempio il numero in assoluto di decessi tra Italia e Stati Uniti. Se si tiene però conto del numero di abitanti e si esamina la mortalità in eccesso su un milione di persone, sempre affidandosi al lavoro pubblicato su Lancet per i soli primi due anni di pandemia, il record negativo andrebbe alla Russia (3.746 decessi per milione di abitanti) e al Messico (3.250), seguiti da Brasile (quasi 1.870) e Stati Uniti (quasi 1.800, sempre per milione di abitanti) .

Secondo i dati più aggiornati di Our World in Data, però, dopo l’impatto dell’enorme, apparentemente lieve, ondata Omicron, alla fine di luglio 2022 l’Italia si trovava di nuovo testa a testa con gli Stati Uniti, con circa 3.400 decessi in più ogni milione di abitanti, al di sopra di tutti gli altri grandi paesi ad alto reddito. Più del doppio è invece il bilancio di Russia, Brasile e di molti stati dell’Europa dell’est, soprattutto la Bulgaria, che supererebbe, secondo queste stime, addirittura la soglia dei 9.000 morti in eccesso rispetto alle attese calcolate sul periodo precedente la pandemia.

Dottore, tornando all’Italia cosa può dirmi allora?

Accertato che effettivamente la mortalità in Italia è alta rispetto ad altri Paesi simili dell’Europa occidentale, occorre cercare di spiegare un fenomeno che probabilmente deriva dalla somma di molti fattori. Uno di questi, forse il principale, è l’età media avanzata della popolazione italiana. Se a parità di numero di casi, le persone colpite sono più anziane, si avranno in totale più decessi. Questo dato da solo non giustifica tuttavia la discrepanza che si registra il nostro Paese e altre nazioni “anziane”, come la Germania e soprattutto il Giappone, il cui successo dipende però, a monte, dalla capacità di tenere a bada la circolazione del virus.

Non basta nemmeno, dopo due anni e mezzo, invocare la sfortuna. Nel 2020 l’Italia fu infatti il primo Paese occidentale colpito da un’ondata incontrollabile di contagi da Covid-19, in particolare nelle regioni del Nord. Non occorre ricordare quanto eravamo impreparati, dal punto di vista organizzativo, strutturale, delle mascherine e dei tamponi, dei posti di terapia intensiva, del personale, della medicina sul territorio. In Lombardia, Piemonte, Veneto, e in misura minore anche in altre regioni di Italia, la mortalità in quelle prime settimane fu altissima, anche perché mancavano in tutto il mondo indicazioni precise e affidabili su come trattare le centinaia di persone che ogni giorno arrivavano nei pronto soccorso con gravi difficoltà respiratorie, dovute all’azione di un virus allora del tutto sconosciuto.

Anche per questo, nel 2020, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il numero totale di morti per qualunque causa in Italia è stato il più alto mai registrato dalla Seconda Guerra mondiale, quasi 750.000, oltre il 15% in più dell’atteso rispetto alla media 2015-2019. Perché però ci siamo mantenuti ai posti più alti della classifica anche dopo, nonostante le severe misure non farmacologiche messe in atto dal governo (dal lockdown iniziale alle successive norme di protezione individuale, distanziamento e igiene), l’adesione agli stessi protocolli terapeutici e la fornitura di nuovi farmaci come gli altri paesi ad alto reddito, e una campagna vaccinale tra le più riuscite al mondo?

Per rispondere a questo enigma sono stati chiamati in causa molti altri fattori, da quelli genetici, secondo cui la nostra popolazione potrebbe essere portatrice di varianti genetiche sfavorevoli per l’evoluzione della malattia (ipotesi mai confermate su larga scala), alle difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale, soprattutto in termini organizzativi e di risorse umane, con particolare riguardo alla carenza di infermieri e all’assistenza territoriale inadeguata, soprattutto in alcune realtà [6].

Ci sono poi importanti fattori sociodemografici e culturali. Nei Paesi del nord Europa baci, abbracci e altre forme di contatto fisico sono meno comuni nei contatti occasionali che da noi, ma soprattutto sono molto diversi i nuclei familiari e le loro abitudini: le famiglie allargate non si incontrano quanto in Italia, i giovani tendono a lasciare l’abitazione dei genitori molto prima e non è così frequente che i nonni vivano con i nipoti o comunque si occupino dei più piccoli. Questo esporrebbe maggiormente gli anziani al rischio di contagio.

Dobbiamo tenere in considerazione anche qualcos’altro?

Per capire se le ragioni del carico di vittime in Italia dipende da una maggiore esposizione dei più fragili o dal fatto che, una volta contagiati, muoiono di più (per fattori genetici, anagrafici o perché sono curati meno bene), è bene fare riferimento a un altro indice, quello di letalità, che stima quante persone perdano la vita tra tutte quelle contagiate o malate. In inglese i due valori sono ben distinti: si parla rispettivamente di Infection Fatality Rate (IFR), basato sul numero dei contagi, e di Case Fatality Rate (CFR), basato sui casi, quindi i malati.

Quest’ultimo è più attendibile, perché è più facile individuare e registrare chi manifesta sintomi (i casi malati) rispetto agli infetti asintomatici, che restando sotto traccia possono alterare questa stima facendocela sopravvalutare. Per esempio, durante la prima ondata, alla fine della primavera 2020, la letalità sui casi registrati in Italia sembrava altissima, ma sappiamo che in quel periodo era molto difficile effettuare un tampone e migliaia di persone ammalate di forme lievi o moderate non sono state registrate. Come ricorda l’Istituto Superiore di Sanità, il numero medio giornaliero di tamponi effettuati è passato da 3.110 a febbraio 2020 a 175.970 ad agosto 2022 (sfiorando il milione al giorno a gennaio 2022) e questo fenomeno contribuisce, insieme al miglioramento delle cure e soprattutto al ruolo dei vaccini, a far sì che in Italia la letalità non standardizzata per età (CFR grezzo), sia scesa dal 19,6%, rilevato all’inizio della pandemia, allo 0,1% a giugno 2022 [7].

Data l’estrema variabilità clinica dell’infezione tra giovani e anziani, il fattore età è determinante in questi calcoli, anche in relazione a quanto facilmente le diverse fasce di popolazione si sono infettate nelle diverse fasi della pandemia, anche di conseguenza alle misure di sanità pubblica messe in atto. Nelle prime fasi, con la chiusura delle scuole e il successivo lockdown, i bambini sono stati più protetti. Più avanti, i grandi anziani sono stati vaccinati per prima, e così via.

Il rischio di morire per un’infezione da Covid-19 aumenta infatti con l’età, con l’eccezione dei bambini piccoli, soprattutto sotto l’anno, che, anche per il fatto di non poter ancora essere vaccinati, sono esposti a una maggiore incidenza di complicazioni anche gravi, simile a quella dei sessantenni. Secondo un’altra analisi pubblicata da Lancet, al 1 gennaio 2021 la letalità standardizzata per età e calcolata sul numero di tamponi positivi (non sui casi sintomatici) in Italia superava di poco lo 0,4%, come in Australia, Giappone o Stati Uniti. Il dato è quasi il doppio di quello registrato in Francia, in Israele o in Norvegia, ma inferiore a Belgio, Germania, Spagna o Danimarca [8]. È evidente che a parità di decessi questo dato risente anche del numero di tamponi eseguiti per sorveglianza, che permette di riconoscere un maggior numero di infetti asintomatici.

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il dato più significativo, cioè la letalità riferita ai casi, sarebbe invece oggi in media in Italia dello 0,8%. Anche in qui in media Francia e Germania fanno meglio del nostro Paese, con un tasso che è quasi la metà, mentre Spagna e Regno Unito superano lo 0,8 e gli Stati Uniti l’uno per cento.

Da questa lunga trattazione emerge che, se un problema c’è, quindi, non è solo dell’Italia, ma anche di altri Paesi avanzati. Forse varrebbe la pena di studiare i Paesi più simili al nostro che hanno fatto meglio, come la Francia o la Germania, per capire da cosa dipende la loro migliore performance. Se per la Germania si può ritenere che abbia fatto la differenza un alto numero di posti letto in terapia intensiva, altrettanto non si può dire della Francia, che all’inizio della pandemia si è trovata sguarnita come noi [9].

Insomma, i fattori in gioco sono moltissimi, e solo studiandoli ancora e a fondo si potranno imparare lezioni che ci aiuteranno a trovare il modo di convivere con il virus, riducendo al minimo il numero delle sue vittime.

Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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