AGGIORNAMENTO DELL’11/03/2020
Dichiarata oggi da parte dell’OMS la pandemia di CoViD-19
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Il 4 febbraio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che, almeno per il momento, la diffusione nel mondo del nuovo coronavirus, ribattezzato SARS-Cov-2 [1], non può essere considerata una pandemia. Ma che cos’è una pandemia? E perché quella attuale non viene giudicata tale, se ormai il nuovo coronavirus ha raggiunto quasi una trentina di Paesi, in quattro diversi continenti?
Che cos’è una pandemia?
La definizione di “pandemia” (dal greco “pan” e “demos”, letteralmente “un’epidemia estesa a tutto il popolo”) è stata ed è ancora oggetto di dibattito tra gli esperti, tanto che a oggi non ne abbiamo una versione chiara, definita e accettata da tutti.
Sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una pandemia è definita in maniera alquanto generica come la diffusione globale di una nuova malattia [2,3]. Mentre si dice “epidemia” una situazione in cui si verifica un numero di casi superiore all’atteso, a caratterizzare la pandemia sono quindi l’estensione del contagio e la novità dell’agente infettivo che la provoca.
Non si fa invece più alcun riferimento oggi, come invece accadeva un tempo, alla gravità delle sue manifestazioni cliniche: l’impatto di una pandemia sulla società non dipende infatti solo dal numero di morti provocati direttamente dal virus, ma anche dalle sue conseguenze indirette. Le risorse dei sistemi sanitari non sono illimitate, e in molti contesti sono già insufficienti per affrontare la quotidianità. Fondi, strutture, personale dedicati all’assistenza di questi pazienti in più saranno quindi distolti dalla gestione ordinaria. La possibilità che gli operatori stessi cadano ammalati riduce poi ulteriormente la capacità del sistema di rispondere all’emergenza.
Inoltre non vanno trascurati gli effetti economici e sociali, e talvolta perfino politici, di eventi globali di questa dimensione. Tali conseguenze, che potrebbero essere molto rilevanti nel caso di CoVid-19 (così è stata battezzata la malattia provocata da SARS-Cov-2), data l’importanza strategica della Cina, hanno a loro volta, in maniera più o meno diretta, un forte impatto sul benessere e sulla vita delle persone.
Quando se ne dichiara una? E che cosa comporta?
La soglia oltre la quale si parla di pandemia resta comunque sfumata, e mantiene una certa dose di arbitrarietà: non esiste un numero minimo di casi o di Paesi interessati per dichiararla, ma è importante che la trasmissione dell’agente infettivo sia significativa e prolungata in diverse parti del mondo.
Proclamarla resta una decisione a carico del direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che valuta il rischio attuale a livello globale in relazione alle sue conseguenze. La dichiarazione infatti fa scattare accordi speciali tra gli Stati e contratti tra Stati e aziende, per esempio per la produzione, la prenotazione e l’acquisto di farmaci e vaccini. Queste intese sono subordinate alla presa di posizione formale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una volta che il processo è avviato, anche se la minaccia dovesse rientrare, o rivelarsi meno grave del previsto, come accadde nel 2009, gli impegni presi restano validi. È cruciale quindi che la dichiarazione avvenga in tempo per tamponare l’emergenza, ma solo quando è certo che questo è veramente necessario.
Perché per ora quella da SARS-Cov-2 non è ancora una pandemia?
Il 30 gennaio 2020 l’0rganizzazione mondiale della sanità ha dichiarato l’epidemia in Cina un’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale (PHEIC) [4]. A oggi (17 febbraio), però, non ha ancora ritenuto opportuno dichiarare che si tratta di una pandemia, anche se si sono già verificati centinaia di casi in più di venti Paesi e territori al di fuori della Cina continentale, e in altri tre continenti oltre all’Asia.
La maggior parte dei casi individuati fuori dalla Cina riguarda infatti persone giunte da quel Paese o che hanno contratto da questi direttamente la malattia. A parte la piccola epidemia confinata a bordo della nave da crociera ormeggiata al largo di Yokohama, in Giappone, gli altri focolai sono limitati a piccoli gruppi di persone e sembrano sotto controllo. Non è stata finora dimostrata una trasmissione sostenuta e diffusa della malattia nella popolazione al di fuori della Cina. L’emergenza c’è, ed è grave in Cina, ma nel resto del mondo non sembra giustificare per ora provvedimenti più importanti di quelli già presi.
In Europa, in particolare, secondo l’ultima valutazione del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, il rischio di una diffusione estesa del contagio continua a mantenersi basso [5].
È possibile che SARS-Cov-2 provochi una pandemia?
Gli esperti non escludono che il SARS-Cov-2 possa provocare una pandemia. La sua capacità di trasmettersi da persona a persona attraverso le goccioline di saliva e di infettare fino a 3-4 persone per ciascun individuo ammalato gli danno questa capacità [6].
Il futuro dipenderà dall’evoluzione della situazione in Cina e soprattutto dalla capacità degli altri Paesi di individuare e isolare prontamente i casi che probabilmente ancora per qualche settimana potranno continuare a presentarsi. Desta preoccupazione soprattutto la situazione di Africa, Sud America e in generale delle aeree dove i sistemi sanitari sono più fragili.
In ogni caso oggi il mondo è pronto a rispondere molto meglio che in passato, non solo rispetto alla grande pandemia del 1918, la famosa Spagnola, ma anche a quella più recente, la cosiddetta “suina” del 2009, provocata dal virus influenzale A(H1N1). L’esperienza maturata nei casi precedenti, a partire dall’aviaria e dalla SARS, insieme all’avanzamento delle conoscenze e allo sviluppo di nuove tecniche di laboratorio, ci garantisce diversi vantaggi.
Lo ha dimostrato, nel caso del SARS-Cov-2, la rapidità con cui gli scienziati hanno sequenziato, cioè definito la sequenza genetica del virus e hanno messo in comune, su una piattaforma online, queste informazioni preziosissime. Anche senza disporre di campioni di virus, quindi, sulla base di questi dati, i ricercatori di tutto il mondo hanno potuto cominciare a lavorare per cercare di prevedere il comportamento del nuovo agente infettivo, mettere a punto test diagnostici rapidi fondamentali per il contenimento dell’infezione, capire se ci sono antivirali che potrebbero funzionare, pensare addirittura a un vaccino. Questo potrebbe arrivare in tempi record grazie allo sfruttamento di piattaforme messe a punto nelle crisi precedenti. Tutte cose impensabili, in questo modo e in così poco tempo, fino a pochi anni fa.
Dal 2005 sono inoltre in vigore le cosiddette IHR (International Health Regulations), norme a vantaggio della salute globale condivise da 196 Paesi, per applicare in maniera rapida e omogenea le misure giudicate più necessarie nelle diverse situazioni per il contenimento delle infezioni. I Paesi devono avere pronto un piano pandemico che ha già previsto da diversi punti di vista come reagire alle minacce.
Tutta questa attività preparatoria è detta in inglese “preparedness”, e ha lo stesso limite dei vaccini: se funziona, evitando una pandemia disastrosa, può sembrare inutile. Finché una grave pandemia si riesce a controllare, è facile gridare al “falso allarme”. Ma prepararci al peggio è l’unico modo che abbiamo per evitare che il peggio si verifichi [7,8].
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