Un farmaco può non essere “efficace” anche se su di me ha funzionato?

27 Luglio 2018 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Posso essere immune a un farmaco?Immagina di esserti preso l’ennesimo raffreddore della stagione. Vai in farmacia e fai una scorta di tutto quello che – in una settimana – potrà aiutarti a star meglio. Se deciderai di non far nulla, ci vorranno sette giorni, più o meno. È una battuta, ma mica tanto. Se non facciamo nulla, alcune malattie peggioreranno, ma potremmo non avere vantaggi neanche da un atteggiamento determinato e relativamente più aggressivo. Altre, invece, potrebbero migliorare anche se non facessimo nulla. Non sono pochi, a dire il vero, i disturbi che passano senza bisogno di mettere in atto particolari terapie. I medici li chiamano autolimitanti.

Capita più spesso di quanto crediamo. Torniamo dalla partita di calcetto con la caviglia dolorante o da una gita col mal di gola. Se dopo un paio di giorni sarà passato tutto, saremo sicuri di dover ringraziare la pomata all’arnica comprata in erboristeria o le pasticche consigliate dal farmacista? Come spiegano gli autori di un progetto internazionale che si chiama Testing treatments (che in italiano potremmo tradurre con “mettere alla prova i trattamenti”), “la conoscenza della storia naturale di una malattia, tra cui la probabilità che passando il tempo possa migliorare da sola (remissione spontanea), può evitare l’uso di trattamenti non necessari e false credenze su rimedi la cui efficacia non è provata” (Evans, 2011).

Quando un disturbo o una malattia sono in fase acuta è più facile stabilire una relazione di causa ed effetto. Le cose si complicano in presenza di sintomi “che vanno e vengono” oppure di quelle malattie croniche di cui soffrono ormai molte persone, soprattutto anziane. “Per esempio – spiegano sempre gli autori di Testing treatments – i pazienti con artrite sono più propensi a cercare aiuto quando sono in una fase acuta che, per sua natura, è improbabile che possa durare a lungo. Nonostante il trattamento ricevuto – convenzionale o complementare, efficace o inefficace – è probabile che il loro dolore migliorerà dopo averlo ricevuto, semplicemente perché la fase acuta va placandosi. Comprensibilmente, tuttavia, i medici e i pazienti tenderanno ad attribuire

 

tali miglioramenti al trattamento assunto, anche se può non aver avuto nulla a che fare con i miglioramenti.”

Dottore, vuol dirmi dunque che non dovremmo mai essere sicuri di nulla?

L’idrossiclorochina può essere usata per prevenire Covid-19 intAssolutamente no. Per fortuna la ricerca scientifica ci mette nelle condizioni di avere numerose ragionevoli certezze. Ma non dovremmo mai dimenticare che tutti siamo soggetti a un problema: vediamo quello che ci aspettiamo di vedere. Se siamo convinti di una cosa – in questo caso: se siamo convinti che una terapia sia efficace – andremo alla ricerca di qualsiasi appiglio capace di confermare le nostre convinzioni, così che saremo sempre più sicuri di avere ragione. Al contrario, abbiamo difficoltà a riconoscere gli elementi che possono contraddire le nostre opinioni e quindi tendiamo a ignorarle. Talvolta senza neanche farlo apposta. Come dice lo studioso tedesco Gerd Gigerenzer, dovremmo ricordarci sempre che a prendere le decisioni è gente come noi, mediamente ignorante (nel senso di non sempre preparatissima), con poco tempo a disposizione e un futuro incerto (Gigerenzer, 2009).

Questa è la disposizione d’animo che contribuisce alla diffusione di informazioni assolutamente improbabili, fino a farle diventare certezze. “La mamma di un mio amico beve ogni sera una tisana di zenzero e cannella e non si ammala da dieci anni”: quante volte ci capita di sentir dire una frase del genere? Ancora: “Prendi anche tu gli integratori che mi permettono di giocare a tennis con ragazzi che hanno venti anni meno di me”. In assenza – o quasi – di prove scientifiche di efficacia di un rimedio che decidiamo di assumerepossono essere gli effetti psicologici a spiegare perché con alcuni pazienti un certo trattamento contribuisca ad alleviare i sintomi fino a far realmente verificare dei miglioramenti anche se il trattamento, di fatto, non contiene nessun principio attivo (un trattamento “finto”, spesso conosciuto come un “placebo”).

Alcuni pazienti hanno riportato miglioramenti dopo aver ricevuto pillole a base di zucchero, iniezioni di acqua, trattamenti con dispositivi elettrici inattivati, o interventi chirurgici in cui non era successo niente di diverso da un piccolo taglio fatto e ricucito.

Sarà anche come dice lei, dottore. Ma se sto meglio perché dovrei abbandonare le mie “cure” preferite anche se di efficacia non provata?

Almeno per due ragioni. Una è che i trattamenti inefficaci potrebbero distrarci da quelli che funzionano. L’altra è che molti trattamenti (se non la maggior parte) hanno effetti collaterali negativi, alcuni a breve termine, altri a lungo termine e qualcuno forse ancora non conosciuto. Se i pazienti non ricorressero a “terapie” basate su aneddoti o sul passa parola, si risparmierebbero i possibili effetti indesiderati. “Quindi vale la pena di individuare quei trattamenti che è improbabile che aiutino o che potrebbero causare più danni che benefici. Inoltre, la ricerca può anche scoprire importanti informazioni su come i trattamenti funzionano e così indicare la possibilità di sviluppo di trattamenti migliori e più sicuri” (Evans, 2011).

Una cosa che mi chiedo spesso è perché alcune terapie – in effetti forse un po’ stravaganti – non sono rimborsate dal servizio sanitario…

I servizi sanitari dovrebbero supportare i costi di quei trattamenti che rappresentano un buon investimento a fronte delle limitate risorse disponibili per l’assistenza sanitaria. Se ad alcuni pazienti sono dati trattamenti di non dimostrata utilità questo può significare privare altri pazienti di trattamenti che hanno dimostrato di essere di beneficio.

Mi vuol dire, dottore, che l’opinione del paziente conta poco o per nulla?

È meglio assumere farmaci prima di fare il vaccino contro Covid-19: aspirinaAl contrario, il punto di vista del malato – e in certe occasioni anche dei suoi familiari – è spesso il punto di partenza di ricerche su nuovi trattamenti apparentemente promettenti. Seguendo proprio queste impressioni, attraverso ricerche rigorose a volte si può arrivare alla identificazione di effetti dannosi o utili dei trattamenti. C’è un’attività di ricerca molto intensa che sta studiando quelli che sono stati chiamati gli esiti riferiti dal paziente (in inglese: patient reported outcomes), includendo sistematicamente queste osservazioni nella valutazione degli studi dei nuovi medicinali e, in generale, degli interventi sanitari (Botturi & Rodella, 2014).

Quindi, sebbene sia una componente soggettiva, le impressioni delle persone sugli effetti dei trattamenti non devono essere ignorate. Il singolo caso riferito, però, ha valore di aneddoto e raramente può rappresentare una base affidabile per trarre solide conclusioni sugli effetti dei trattamenti, tanto meno per giungere a conclusioni generali.

Se quello che è accaduto a una singola persona non fa testo, cosa deve avere uno studio perché ci si possa fidare?

La cosa forse più importante è che lo studio confronti cose diverse ma simili. Come spiegano gli autori di Testing treatments, “i confronti sono fondamentali per tutte le sperimentazioni dei trattamenti. I medici e i pazienti a volte confrontano nelle loro menti i vantaggi di due trattamenti. Per esempio, possono avere l’impressione che i pazienti stiano rispondendo a un trattamento in modo diverso rispetto alle risposte avute con altri trattamenti precedenti. I trattamenti sono generalmente valutati confrontando gruppi di pazienti che hanno ricevuto trattamenti diversi. Se la valutazione deve essere corretta, i confronti devono assicurare che simile sia confrontato con simile: la sola differenza sistematica tra i gruppi di pazienti deve essere il trattamento che hanno ricevuto”.

Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
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