I migranti portano malattie?

31 Luglio 2018 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

La paura che l’arrivo di persone migranti nel nostro Paese possa nuocere alla salute di chi risiede in Italia è abbastanza diffusa. Ma è un timore che ha basi più radicate in convinzioni politiche che in evidenze scientifiche ed epidemiologiche.

Perché, al momento dello sbarco o durante le ispezioni delle navi, il personale sanitario indossa tute, guanti e mascherine?

Gli immigrati portano malattie?È vero: vedere medici, infermieri e volontari così protetti può far sospettare che ritengano di esporsi a un rischio infettivo. Ma si tratta, invece, di una procedura prevista dalla Normativa di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, regolata dal Decreto n. 81 del 9 aprile 2008 e dalle successive modifiche. Dal punto di vista strettamente sanitario, la salute dei migranti è controllata in maniera capillare e scrupolosa. Come leggiamo sul sito Epicentro, dell’Istituto Superiore di Sanità, “la nuova ondata eccezionale di migrazione che ha interessato l’Italia dalla fine del 2013 ha richiesto la continuazione e il rafforzamento delle attività di sorveglianza sindromica. È nato dunque il progetto Speim (Salute pubblica ed emergenza immigrazione), al fine di fornire un’analisi di contesto e l’istituzione/rafforzamento di flussi informativi nei centri di immigrazione della Regione Sicilia, finalizzati all’identificazione precoce e al controllo delle malattie infettive. In particolare la sorveglianza sindromica per le malattie infettive rivolta alle popolazioni ospitate nei centri per immigrati è finalizzata a evidenziare tempestivamente eventi rilevanti per la sanità pubblica, per permettere alle autorità sanitarie locali e regionali di poter intervenire in modo adeguato in caso di necessità”. I casi di malattie infettive registrati tra i migranti non sono numerosi. Le malattie più frequenti nelle persone che sbarcano in Italia sono altre e, alcune, molto particolari, come “la malattia dei gommoni”.

Cos’è la malattia dei gommoni?

Sono le lesioni e le ustioni provocate dal carburante che, trasportato sui gommoni vicino alle persone, può rovesciarsi nella barca e miscelarsi all’acqua salata. A contatto con la pelle delle persone trasportate, la corrode provocando ferite dolorose e molto gravi (Bartolo & Tilotta, 2016). Occorre considerare che persone malate difficilmente potrebbero sopportare lo sforzo di un viaggio terribilmente impegnativo come quello che intraprende chi sbarca sulle coste italiane.

Chi e quando controlla la salute dei migranti?

Gli immigrati portano il covid?Ci sono delle linee guida che spiegano bene come avvengono i diversi passaggi. Infatti, l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà ha elaborato, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e la Società italiana di medicina delle migrazioni, un documento utile non solo per guidare il lavoro degli operatori ma anche per informare i cittadini interessati. “Durante le operazioni di soccorso in mare, i migranti ricevono una prima valutazione sanitaria da parte dei team sanitari che operano a bordo, in coordinamento con la Guardia costiera. Già durante il viaggio, e quindi prima dell’arrivo in porto, possono essere trasferiti presso strutture sanitarie per mezzo di velivoli della Marina Militare o della Guardia costiera (…); una volta in porto, il trasferimento d’urgenza avviene tramite il sistema 118 (…). Il Ministero della Salute, in attuazione delle proprie funzioni di profilassi internazionale e in applicazione del Regolamento Sanitario Internazionale dell’OMS, (…) ha l’incarico di rilasciare alle navi che portano migranti in arrivo (…) un attestato di libera pratica sanitaria – LPS. La LPS segnala l’assenza di rischi per la salute collettiva e consente lo sbarco dei migranti in uno dei (circa) quindici porti attualmente interessati dal fenomeno, in cinque diverse regioni italiane. La LPS viene rilasciata dopo una prima verifica delle condizioni generali di salute delle persone a bordo della nave.” Dopo lo sbarco, l’attività continua per quelli che sono i compiti di profilassi internazionale. Sulle banchine è fornita – oltre all’assistenza umanitaria – anche un’assistenza di tipo sanitario, che consiste in una prima valutazione volta a identificare eventuali quadri emergenziali o situazioni sospette cui dare risposta immediata.

Quali sono, dunque, le malattie di cui soffrono i migranti?

Una delle malattie più diffuse è la scabbia. Ma, attenzione, non è nulla di particolarmente preoccupante. È un’infezione della pelle dovuta a un parassita diffuso in tutto il mondo. Compresa l’Italia. È favorita dalle condizioni di vita e, come spesso accade, chi vive in una situazione di scarsa igiene o di sovraffollamento è più vulnerabile. Diversi farmaci curano la scabbia, anche in un’unica soluzione.

I migranti portano la tubercolosi?

Probabilmente no, ma è importante vigilare non soltanto sulla popolazione migrante. Infatti, il riemergere della tubercolosi è legato ad un aumento diffuso di situazioni di povertà. Su un sito dell’Istituto Superiore di Sanità leggiamo infatti che “la tubercolosi è una malattia fortemente associata alle condizioni in cui vivono le persone. L’abbassamento delle difese immunitarie, infatti, può dipendere dal fatto di vivere in condizioni igieniche molto scarse e di soffrire di uno stato di malnutrizione e cattive condizioni generali di salute. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, per esempio, le decine di milioni di rifugiati che vivono in condizioni molto precarie in diversi Paesi del mondo, a seguito di guerre o di catastrofi naturali, sono a rischio molto alto di sviluppare tubercolosi. La necessità di tenere sotto controllo la tubercolosi nei campi profughi e rifugiati, soprattutto in zone dove l’incidenza della malattia è già molto alta come in Africa, costituisce quindi una priorità assoluta”.

I casi di tubercolosi sono aumentati?

Tra il 2006 e il 2015, “il numero dei casi di tubercolosi notificati in Italia mostra una lenta e progressiva diminuzione dell’incidenza, in accordo con quanto già accaduto nel corso degli anni: da 7,7 casi per 100.000 abitanti nel 2006 a 6,3 casi per 100.000 nel 2015 (Rapporto OsservaSalute 2016). Con il termine incidenza si intende il numero di nuovi casi registrati in un dato periodo di tempo: in questo caso, un anno.

Talvolta leggiamo statistiche più allarmanti, per esempio dati che riportano di un aumento della percentuale di migranti tra i malati di tubercolosi. In questo caso, il rapporto cambia solo perché sta diminuendo il numero di malati di tubercolosi tra gli abitanti delle nazioni che accolgono (Kodmon, 2016).

C’è rischio di rimanere contagiati?

Sebbene la tubercolosi sia una malattia infettiva, il rischio di contagio della malattia tra una persona migrante e un cittadino del Paese ospite è molto basso (Pareek, 2016).

I migranti portano l’AIDS?

L'HIV è ancora diffusa tra gli immigrati?È vero che molti degli immigrati che arrivano in Italia provengono da Paesi in cui l’infezione da HIV continua ad avere una elevata prevalenza. “Rispetto alla popolazione italiana, quella straniera residente in Italia risulta avere un’incidenza dell’infezione (seppur con una diminuzione del numero assoluto dei casi) di quasi quattro volte superiore alla popolazione italiana, sebbene un’analisi di incidenza normalizzata per fascia di età porterebbe verosimilmente ad una minore differenza di incidenza”, spiegano su Saluteinternazionale.info Francesco Castelli della Società Italiana di Medicina Tropicale e Salute Globale, Salvatore Geraci della Società Italiana di Medicine delle Migrazioni e Stella Egidi di Medici Senza Frontiere. “È peraltro superfluo ricordare come l’offrire alloggio e accoglienza, per la specifica modalità di trasmissione della malattia, non rappresenta un rischio per la popolazione residente. Sono i comportamenti cosiddetti a rischio (mancato utilizzo dei dispositivi di protezione – come i guanti – nel personale sanitario, rapporti sessuali non protetti, scambio di siringhe) a esporre le persone a un eventuale contagio, non certo il semplice contatto o la condivisione dello stesso suolo di residenza con persone sieropositive. Varrebbe pertanto la pena, invece di porre lo stigma sulla popolazione immigrata, incrementare gli sforzi per educare la popolazione alla prevenzione e a tenere comportamenti corretti e protettivi nei confronti del contagio (quale che sia la fonte, italiana o straniera)”.

Argomenti correlati:

Medicina

Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
Tutti gli articoli di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)