Gli effetti collaterali di un farmaco si scoprono quando è già in commercio?

3 Luglio 2018 di Fabio Ambrosino (Pensiero Scientifico Editore)

Perché un farmaco causa effetti collaterali?Perché un farmaco riceva l’autorizzazione da parte dell’agenzia regolatoria a essere immesso nel mercato, è necessario che l’azienda produttrice dimostri la sua efficacia, qualità e sicurezza. Tuttavia, la valutazione del livello di sicurezza è spesso molto complessa e richiede procedure aggiuntive che vanno oltre la fase di sperimentazione clinica del farmaco. “La sicurezza [di un medicinale] non è assoluta e può essere giudicata solo in relazione all’efficacia”, si legge in un documento sul tema prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. “C’è la possibilità che reazioni avverse, rare ma gravi, possano non essere individuate nella fase di sviluppo del farmaco” [1]. Per questo motivo, una parte del processo di valutazione della sicurezza di un farmaco deve necessariamente avvenire dopo l’approvazione alla vendita, quando il farmaco è già in commercio. Questa fase, definita di “sorveglianza post-marketing”, non riguarda solo i medicinali innovativi in fase di approvazione ma anche i generici e i farmaci già approvati in passato e in commercio.

Come viene valutata la sicurezza di un farmaco?

Affinché il suo utilizzo come medicinale venga autorizzato, una molecola deve essere sottoposta a una lunga serie di studi sperimentali, prima in laboratorio e su animali e per concludere sull’uomo. In media, la durata totale del processo di autorizzazione al commercio di un farmaco oscilla tra i sette e i dieci anni.

La prima fase di sperimentazione viene definita pre-clinica in quanto non coinvolge la somministrazione della molecola a soggetti umani: si valuta il suo comportamento (via di somministrazione, assorbimento, eliminazione) e livello di tossicità su campioni di laboratorio e modelli animali. Solo se il farmaco dimostra di possedere un potenziale effetto terapeutico e un livello di tossicità accettabile passa alla fase di sperimentazione clinica, costituita da tre diverse fasi. Nella prima la molecola viene testata, in diversi dosaggi, su un numero limitato di pazienti giovani e sani, al fine di valutare eventuali effetti collaterali non emersi nella fase pre-clinica. Nella seconda fase, invece, il farmaco viene testato su soggetti volontari (solitamente dai 100 ai 300 soggetti, ma in alcuni casi anche di più) affetti dalla malattia per cui il farmaco è pensato, ed è quindi funzionale a dimostrare la non tossicità e l’attività del principio attivo. Infine, nella terza e ultima fase vengono valutate l’efficacia e la sicurezza della molecola rispetto a un placebo, un altro farmaco o a nessun trattamento, su campioni composti in genere da migliaia di soggetti [2].

Cos’è la sorveglianza post-marketing?

Come detto in precedenza, alcune reazioni avverse possono però non manifestarsi durante le fasi di sperimentazione del farmaco – in quanto particolarmente rare –  o, semplicemente, manifestarsi successivamente o in sottogruppi di pazienti non inclusi negli studi. Questo problema è emerso in modo drammatico tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta quando ci si rese conto che la somministrazione del farmaco anti-nausea talidomide alle donne in gravidanza causava gravi deformazioni nei nascituri [1]. Anche se il problema delle reazioni avverse ai farmaci era già noto in precedenza, da quel momento le istituzioni hanno compreso la necessità di mettere in atto una serie di interventi coordinati per valutare l’emergere di queste situazioni e agire in modo tempestivo per risolverle [3]. Questa “quarta fase”, quindi, ha l’obiettivo di valutare quelle reazioni avverse che possono essere individuate solo dopo l’utilizzo di massa di un farmaco ed è per l’appunto chiamata “sorveglianza post-marketing”. I risultati di queste analisi vengono poi impiegati per aggiornare il foglietto illustrativo del medicinale o, nei casi più gravi, per procedere con l’annullamento dell’autorizzazione da parte dell’agenzia regolatoria.

Dottore… ma come funziona?

In Italia il detentore dell’Autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) del farmaco, solitamente l’azienda produttrice, ha – secondo il decreto legislativo 219/2006, che regola questi meccanismi – l’obbligo di “registrare e notificare con la massima urgenza, e comunque entro quindici giorni da quando ne ha avuto notizia, qualunque sospetta reazione avversa grave da medicinali, verificatasi in Italia e segnalatagli da personale sanitario, alla struttura sanitaria di appartenenza del segnalatore e, ove non fosse possibile identificare tale struttura, all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA)” [4]. Le segnalazioni spontanee di medici e farmacisti rappresentano infatti la parte più consistente delle comunicazioni su potenziali reazioni avverse, ma non sono le uniche. In molti casi, ad esempio, si organizzano dei veri e propri studi epidemiologici che permettono, oltre che di individuare eventuali reazioni avverse inattese, anche di valutarne la frequenza [1]: in questo tipo di ricerche, ad esempio, si individua – attraverso i dati delle prescrizioni – una popolazione di pazienti sottoposti a uno specifico trattamento e li si contatta (es. sottoponendo un questionario) per accertarsi di eventuali reazioni avverse [5].

Autore Fabio Ambrosino (Pensiero Scientifico Editore)

Fabio Ambrosino ha conseguito un master in Comunicazione della Scienza presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Dal 2016 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per siti di informazione e newsletter in ambito cardiologico. È particolarmente interessato allo studio delle opportunità e delle sfide legate all’utilizzo dei social media in medicina.
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