Chi sta male, dopo essere stato vaccinato contro Covid-19, spesso si consola così: “Significa che il vaccino sta facendo effetto”. Ed è vero: stanchezza, mal di testa o talvolta quella che sembra a tutti gli effetti una sindrome simil-influenzale, con febbre, brividi, dolori muscolari, sono segni che il sistema immunitario sta reagendo allo stimolo che gli è stato fornito. La stessa idea, però, preoccupa tutti gli altri – per fortuna la maggior parte dei vaccinati – che nemmeno si accorge dell’iniezione e spesso non sente nemmeno dolore al braccio. “Non mi sono accorto di nulla: mi avranno iniettato acqua fresca? O sono io che non ho risposto alla vaccinazione?” si chiede qualcuno.
Dottore, come stanno le cose?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fuga ogni dubbio: “La presenza o l’ampiezza della reazione che si può avere dopo la vaccinazione non predice né riflette la risposta immune al vaccino” scrive. “Non occorre avere effetti collaterali per essere protetti” [1].
Spiega Robert Finberg, infettivologo e immunologo dell’Università del Massachusetts: “Dopo la vaccinazione (con vaccino a mRNA), occorrono circa due settimane perché il sistema immunitario monti una difesa di tipo adattativo, specifica per SARS-CoV-2, che conferisca una protezione duratura contro il virus” [2]. È questa la risposta immunitaria che ci interessa, perché è quella che ci proteggerà nel tempo.
Ma, per organizzarsi, richiede appunto tempo. Non è possibile che si manifesti già nelle 24-48 ore successive alla vaccinazione, quando compare la maggior parte degli effetti indesiderati, dal dolore nella sede dell’iniezione a una leggera nausea o vomito. Questi sintomi sono specchio di una reazione infiammatoria aspecifica, tipicamente individuale, che non necessariamente si deve manifestare ai fini dell’immunizzazione, e che anzi vorremmo limitare il più possibile.
L’obiettivo di chi studia, mette a punto e produce i vaccini è ottenere la maggior risposta specifica, efficace nei confronti della malattia, riducendo al massimo la reazione iniziale, aspecifica, disturbante per le persone che si sottopongono alla procedura. Anche prima di Covid-19 la storia dei vaccini nel secolo scorso si è sviluppata lungo questa direttrice: puntare a prodotti sempre più efficaci e parallelamente sempre più sicuri, non solo in termini di reazioni gravi, ma anche di disagio a breve termine.
Dottore, come reagisce il nostro organismo al vaccino?
Quando il nostro organismo avverte un danno di superficie (per esempio un’ustione, un taglio, o un’abrasione) oppure intercetta una sostanza estranea penetrata oltre la prima barriera costituita dalla pelle o dalle mucose, si innesca immediatamente una reazione rapida, ma aspecifica, cioè uguale per tutti i tipi di aggressione, indipendente dalla causa dell’allarme: può trattarsi di microrganismi, ma anche di un ferro da stiro caldo, di una spina, di una scheggia o di un chiodo.
L’allarme provoca la liberazione di sostanze, dette citochine, che inducono una risposta infiammatoria acuta: a livello locale i vasi sanguigni si dilatano (ecco perché la pelle infiammata è arrossata e calda) per far affluire cellule di primo intervento e sostanze utili contro qualunque pericolo, per esempio con proprietà antivirali o antibatteriche. In alcuni casi l’infiammazione riguarda tutto l’organismo.
Alcune delle citochine circolanti, per esempio, possono modificare l’impostazione del termostato corporeo, perché faccia aumentare la temperatura. Per esempio producendo calore attraverso la contrazione involontaria dei muscoli: sono i brividi, che in questo modo fanno salire la febbre. Il ruolo di questo rialzo termico come strumento di difesa non è ancora del tutto chiarito, ma sembra che possa contribuire a contrastare alcuni virus o batteri suscettibili appunto al calore.
La vaccinazione introduce nell’organismo sostanze estranee ed è comprensibile quindi che si possano verificare questi stessi fenomeni di immunità aspecifica, detta innata. Questo primo fronte di difesa determinato dall’infiammazione è come si è detto aspecifico, uguale cioè qualunque sia il segnale di pericolo ricevuto dall’organismo. È molto antico in termini di evoluzione: lo possiedono anche insetti e molluschi.
La reazione immunitaria di tipo adattativo, che riconosce in maniera specifica i diversi agenti infettivi e ne conserva memoria, si è sviluppata in tempi più recenti dell’evoluzione, ed è infatti propria dei soli vertebrati. È costituita da cellule di tipo B che producono anticorpi circolanti e da cellule di tipo T che in parte attaccano direttamente il virus, e in parte coordinano la risposta, specifica per ogni aggressore. Un piccolo numero di questi particolari tipi di globuli bianchi conserva per anni la memoria del primo incontro con un agente infettivo, o con una sua proteina caratteristica, come nel caso della spike di SARS-CoV-2. Non appena le cellule circolanti riconoscono di nuovo l’identikit di una vecchia conoscenza, le cellule della memoria predisposte a rispondere a quel determinato segnale sono pronte a riprodursi rapidamente, bloccando immediatamente l’invasore, in maniera molto più efficace della prima volta.
Cosa succede quando ci vacciniamo?
“Quando ci viene inoculato il vaccino” prosegue Finberg “quella che si nota nelle prime 24-48 ore è parte della risposta immunitaria innata: è la reazione infiammatoria dell’organismo, finalizzata a eliminare rapidamente le molecole estranee che hanno violato il perimetro del corpo” [2].
L’entità di questa reazione è del tutto individuale (ne abbiamo parlato nella scheda “La risposta immunitaria al vaccino è sempre uguale?”), dopo il vaccino contro Covid-19 come dopo altri stimoli, e non è correlata alla efficacia della risposta di tipo adattativo che si svilupperà nelle due settimane successive. Su questo l’OMS è molto chiara: “Il vaccino stimola il vostro sistema immunitario a proteggervi dal virus. Questo processo potrà talvolta causare effetti collaterali come febbre, brividi o mal di testa, ma questo non capita a tutti” [1].
Dottore, ci sono dei dati a supporto?
D’altra parte, fin dai primi studi sulla sicurezza e l’efficacia di questi vaccini, si è visto che il rischio di ammalarsi cala in maniera significativa in quasi tutte le persone che li ricevono, mentre la quota di coloro che sviluppano effetti collaterali è sempre minoritaria: evidentemente le due cose non necessariamente coincidono. Poiché si tratta di disturbi comuni possono insorgere anche per altre ragioni: nello studio che ha portato all’autorizzazione del vaccino Comirnaty di Pfizer, per esempio, si è visto che circa la metà dei partecipanti che hanno ricevuto il prodotto ha sviluppato mal di testa, sintomo che però si è presentato anche in uno su quattro di coloro che avevano ricevuto il placebo [3].
Non esistono regole assolute nella frequenza con cui si manifestano gli effetti indesiderati nei diversi gruppi di persone, ma sono ormai riconoscibili alcune tendenze, individuate a livello internazionale e confermate dai rapporti sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19 che puntualmente vengono rilasciati dall’Agenzia Italiana del Farmaco [4]: è vero, per esempio, che sopra i 65 anni questi sintomi sono meno frequenti, e che ciò va di pari passo generalmente con una risposta più debole di entrambe le componenti del sistema immunitario, sia quello innato, sia quello adattativo, che non riguarda solo questi vaccini, ma qualunque agente infettivo [5,6].
Si è anche osservato che gli effetti collaterali sono più frequenti e più forti nelle donne che negli uomini, e in chi ha avuto recentemente Covid-19 e ha quindi una risposta adattativa già pronta a intervenire. La reazione cambia anche a seconda del vaccino ricevuto: con AstraZeneca il malessere è più comune dopo la prima dose, con i vaccini a mRNA, come quello di Pfizer o Moderna, dopo la seconda [4].
Si sta studiando quanto una ridotta risposta al vaccino possa pregiudicare la protezione di persone con le difese compromesse da malattia o terapie. Tuttavia, dal momento che la produzione di anticorpi indotta dai vaccini è da 100 a 1.000 volte superiore a quel che serve per proteggere dalla malattia, una leggera riduzione di questa risposta dovuta all’età o alle condizioni patologiche non compromette in maniera significativa l’efficacia del vaccino [5,6,7].
Dottore, è utile fare un test sierologico per vedere il livello di anticorpi?
A oggi manca un valore certo nel dosaggio di anticorpi tale da poter affermare che una persona è protetta e un’altra no. Per questo non bisogna commettere l’errore di associare il tipo di risposta al verdetto del test sierologico che dosa gli anticorpi nel sangue. Possiamo presumere che chi ha livelli altissimi di anticorpi abbia una buona protezione, ma non siamo in grado di affermare il contrario [8,9,10]. “La quantità di anticorpi misurabile con il test sierologico è solo una componente della risposta immunitaria” precisa l’immunologo milanese Alberto Beretta. “Soggetti guariti che non hanno valori di anticorpi rilevabili nel siero sono comunque in grado di reagire in maniera vivace a un nuovo incontro con il virus grazie alle cellule della memoria che ne conservano il ricordo. Si sta verificando se lo stesso può accadere anche nei soggetti vaccinati in cui il tasso di anticorpi scende o non si alza in maniera significativa”.
Insomma, se un individuo ha una risposta vivace alla vaccinazione, in termini di effetti indesiderati o di produzione di anticorpi nelle settimane successive, possiamo presumere che sarà ben protetto anche nei confronti della malattia, ma con ogni probabilità lo è anche chi non ha sviluppato sintomi e non possiamo escludere che lo sia anche chi non ha prodotto anticorpi o ne ha prodotti pochissimi.
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