Cosa è il reiki?
Il reiki è uno dei metodi riferiti alla cosiddetta “guarigione energetica”, basati sull’idea che il corpo sia circondato o permeato da un campo energetico, capace comunque di sfuggire a qualsiasi tentativo di misurazione con strumenti tradizionali. I terapeuti sarebbero in grado di facilitare il percorso di guarigione rafforzando o riequilibrando tali forze energetiche. La parola stessa è composta da due termini giapponesi: rei (universale) e ki (energia vitale).
Come si svolge una seduta di reiki?
Solitamente, chi si sottopone a una sessione è seduto o sdraiato restando vestito. Il terapeuta posiziona le proprie mani a poca distanza dal corpo dell’utente, o toccandolo appena. Ciascuna delle 10-15 posizioni solitamente assunte viene conservata per un tempo variabile tra i 2 e i 5 minuti. Fino a quando, comunque, il terapeuta abbia percepito il cambiamento auspicato nel flusso di energia.
A cosa servirebbe questa pratica?
Chi è un convinto seguace di questa pratica ama ricordare che il reiki è stato utilizzato nei suoi secoli di storia per il trattamento di quasi tutti i disturbi e le patologie conosciute. Da quelle più lievi – problemi dermatologici, emicrania e cefalea, difficoltà di memoria, insonnia, raffreddore e forme influenzali, ecc. – alle più gravi: sclerosi multipla, patologie oncologiche, fino al trattamento delle fratture.
La letteratura scientifica sul reiki è generalmente di bassa qualità: studi disegnati scorrettamente, poche persone arruolate, distorsioni che rendono i risultati poco affidabili.
Uno studio che ha analizzato tutte le ricerche precedentemente condotte per verificare l’efficacia del reiki nella pratica clinica (una revisione sistematica della letteratura scientifica esistente) è giunto a conclusioni negative: il reiki non apporta benefici significativi (Lee, 2008).
Un articolo pubblicato su una rivista specialistica in ambito infermieristico espone i risultati di diversi studi che hanno valutato gli effetti del reiki sui livelli di ansia e sul dolore. Anche in questo specifico caso, il primo dato da considerare è quello della modesta qualità metodologica delle ricerche condotte, che ha portato a escludere dalla valutazione un numero considerevole di lavori. Inoltre, la disomogeneità delle popolazioni studiate (con il termine “popolazione” si intende il tipo di persone coinvolte nelle ricerche in termini di età, genere, livello di gravità del disturbo o della malattia) ha determinato una bassa fiducia nei risultati degli studi stessi. Tutto ciò premesso, gli autori di questa ricerca hanno notato un possibile effetto positivo del reiki nel controllo del dolore e nel ridurre i livelli di ansia, al punto di augurarsi siano condotti nuovi e più rigorosi studi su questo argomento.
Una lettera pubblicata sul Journal of the American College of Cardiology (JACC) ha riportato i risultati di uno studio randomizzato su una piccola popolazione di pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta, studio che aveva l’obiettivo di valutare l’impatto del reiki sul ritmo cardiaco (Friedman, 2010). Il trial suggerisce qualche effetto positivo.
Il reiki funziona?
Alla luce delle conoscenze consolidate di fisica e di chimica non è possibile rispondere affermativamente a questa domanda (Gorski, 2014). In altre parole, il reiki non può essere considerato una forma di terapia. A meno – spiega l’autore dell’editoriale su Nature Reviews Cancer – di accettare di ripensare l’intero corpus teorico delle discipline scientifiche di base.
È possibile – ed è l’ipotesi avanzata dagli autori della lettera alla rivista dell’American College of Cardiology – che alcune delle modalità insite nello svolgimento di questa pratica possano avere un’influenza positiva sull’esito della prestazione stessa.
In altri termini, è possibile che abbia un impatto positivo sul ritmo cardiaco il fatto stesso che un’infermiera tenga “gentilmente” la mano a una persona ricoverata in terapia intensiva successivamente a un infarto miocardico acuto. In conclusione, il reiki non è una cura che funziona, ma un atteggiamento empatico del curante che preveda forme di contatto con il paziente può dare dei benefici.
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