Sono in arrivo farmaci per l’Alzheimer?

20 Settembre 2023 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Ogni anno la giornata dal 21 settembre viene dedicata alle persone con malattia di Alzheimer che, secondo l’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), sono oggi in Italia oltre 600 mila [1]. Il dato preoccupante, però, è che si stima che entro il 2050, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, i malati di Alzheimer aumenteranno di oltre il 50% [2]. Una giornata, quindi, per sensibilizzare, per ascoltare i bisogni di pazienti e caregiver, per discutere e fare il punto su nuove possibili cure.

Dottore, ci sono nuovi farmaci per l’Alzheimer?

Sì: nell’ultimo periodo diversi farmaci, contenenti anticorpi monoclonali, hanno mostrato risultati promettenti nella capacità di rallentare la progressione della malattia [3]. Attenzione, quindi, perché non si tratta ancora di cure risolutive. Per provare a capire come funzionano questi farmaci, bisogna sapere che l’insorgenza dell’Alzheimer sembrerebbe legata all’accumulo di alcune proteine (chiamate beta-amiloidi) nel cervello, che aggregandosi formerebbero delle placche danneggiando neuroni e causando il declino cognitivo.

Il primo anticorpo monoclonale studiato per la malattia di Alzheimer è aducanumab avendo come obiettivo il contrasto dell’aggregazione delle placche di proteina beta-amiloide. Come spiegavamo nella scheda “È stata trovata la cura per l’Alzheimer?”, la vicenda di questo farmaco è però molto controversa. La Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa che regola l’immissione in commercio di farmaci negli Stati Uniti, lo ha approvato nell’estate del 2021. Ad aprile del 2022 l’European Medicines Agency (EMA) ha invece negato l’approvazione dell’aducanumab per il mercato europeo.

Il secondo anticorpo monoclonale si chiama lecanemab e, rispetto al precedente, dovrebbe intervenire in una fase più precoce della malattia rallentando lo sviluppo delle fibrille di proteine beta-amiloidi (le fibrille diventano poi le placche). La FDA ha approvato il suo utilizzo nell’estate del 2023, mentre in Europa è ancora in corso di valutazione.

Il farmaco proposto più di recente è donanemab, ed è stato pensato per legarsi solo alle proteine amiloidi destinate a formare le placche e non a quelle sane. I primi risultati sembrano aver mostrato risultati leggermente migliori rispetto al lecanemab [4], ma né la FDA né l’EMA si sono ancora espresse.

Dottore, mi sembrano buone notizie…

Sicuramente la buona notizia è che i ricercatori di tutto il mondo stiano lavorando per cercare dei trattamenti per una malattia che riguarda molte persone e che non ha ancora una cura.

Come sanno i lettori più affezionati di Dottore ma è vero che, però, bisogna essere cauti. L’aducanumab e il lecanemab (non parliamo del terzo farmaco, il donanemab, perché è ancora in fase di valutazione) sono stati approvati perché efficaci nel ridurre le placche di amiloide, ma non sappiamo ancora se questo effetto coincida con un miglioramento delle condizioni dell’anziano con malattia di Alzheimer. Lo spiega bene Nicola Vanacore, responsabile Osservatorio Demenze dell’ISS: “Le sperimentazioni cliniche documentano senza dubbio una netta riduzione delle placche amiloidee nei pazienti esposti al lecanemab e aducanumab. […] Il punto cruciale è capire se questa importante riduzione sia associata o meno a un effetto clinico rilevante e in che tempi” [5].

Insomma, i farmaci sono stati approvati sulla base di un cosiddetto “esito surrogato”, qualcosa che è “ragionevolmente probabile” possa predire un beneficio clinico per i pazienti.

Dottore, ci sono altri fattori da considerare?

Questa è una buona domanda. Innanzitutto dobbiamo dire che, sebbene siano necessari ulteriori studi, tutti e tre gli anticorpi monoclonali presentati ad oggi per il trattamento dell’Alzheimer hanno alcuni effetti collaterali. Al momento, sui circa tremila partecipanti agli studi clinici due decessi a causa di emorragia cerebrale sono stati legati all’assunzione dell’aducanumab, tre al lecanemab e tre al donanemab [3].

Un altro aspetto da tenere in considerazione è il costo di questi farmaci. Nel caso dell’aducanumab la terapia per un anno sarebbe dovuta inizialmente costare 56 mila dollari a paziente, poi l’azienda farmaceutica produttrice ha accettato di dimezzare il prezzo [6]. Per quanto riguarda il lecanemab, invece, il prezzo annuo fissato dal produttore è di 26 mila euro [7].

Infine, i tempi. Questi farmaci andrebbero somministrati in uno stato molto precoce della malattia. Oggi, invece, la malattia di Alzheimer viene diagnosticata la maggior parte delle volte sulla base di esami medici svolti all’insorgenza dei primi sintomi quando la malattia è già in uno stato piuttosto avanzato. Per questo la comunità scientifica sta lavorando sullo sviluppo di esami diagnostici che evidenzino la malattia in una fase ancora più precoce [3].

Dottore, sono demoralizzato…

Non deve esserlo. Ho spiegato i limiti delle ricerche perché è importante conoscerli per non farsi prendere da eccessivo entusiasmo. Ma è molto positivo che la comunità scientifica stia investendo tempo e denaro per conoscere più a fondo la malattia e trovare delle cure.

Inoltre, la prevenzione può giocare un ruolo importante. “Non possiamo prestare attenzione solo allo sviluppo di nuovi trattamenti, nell’attesa messianica di un farmaco che risolva tutti i problemi. Diamo molta importanza alla prevenzione”, raccomanda Nicola Vanacore in un’intervista su Neuroinfo. “A oggi siamo a conoscenza di dodici fattori di rischio modificabili ed è stato calcolato che si potrebbe prevenire il 40% dei casi di demenza” [8].

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2019 ha pubblicato un documento in cui sottolinea come una modifica degli stili di vita (l’abitudine al fumo, il consumo eccessivo di alcol, un’alimentazione non equilibrata) o il controllo di alcune malattie (per esempio l’ipertensione, il diabete, l’obesità) possano essere implicati nell’insorgenza della demenza e, in generale, del decadimento cognitivo [9]. Dunque, per una patologia come l’Alzheimer non sono importanti solo la diagnosi precoce o il trattamento, ma anche le strategie di riduzione del rischio, come appunto il perseguimento di uno stile di vita salutare.

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Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
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