Da dove nasce questa idea?
Un tempo la diagnosi di cancro in gravidanza imponeva spesso una tragica scelta tra la vita della madre e quella del nascituro. Le tecniche anestesiologiche e chirurgiche, infatti, non consentivano la rimozione della maggior parte dei tumori senza che ciò comportasse rischi per il feto. La chemioterapia, poi, necessaria a trattare la maggior parte dei tumori, agisce uccidendo le cellule che proliferano di più: insieme con quelle del cancro si pensava che avrebbe inevitabilmente fatto lo stesso anche su quelle in rapido sviluppo dell’individuo in via di formazione. Un danno analogo ci si aspettava dalle radiazioni usate per la radioterapia.
I tre pilastri del trattamento contro il cancro, necessari per salvare la madre, si scontravano quindi con le loro potenziali conseguenze in termini di gravi malformazioni o altri danni al feto. Nei rari casi in cui la malattia veniva scoperta in occasione della gravidanza, quindi, questa veniva spesso interrotta per consentire le cure necessarie a salvare la madre.
Che cosa la smentisce?
Negli ultimi anni è stato però dimostrato che in molti casi, con particolari accorgimenti, è possibile incominciare le cure durante la gestazione e prolungarla almeno fino a quando il neonato, per quanto prematuro, è in grado di sopravvivere senza troppi rischi al di fuori dell’utero materno.
Gli interventi chirurgici, quando necessari per l’asportazione del tumore, con un’anestesia adeguata sono oggi considerati sicuri anche in gravidanza, a meno che non richiedano un’immediata, successiva radioterapia, che resta controindicata durante tutti e tre i trimestri della gestazione stessa.
Alcuni tipi di chemioterapia, invece, come per esempio quelli a base di antracicline – una volta superate le prime 12 settimane di formazione del feto, e viceversa non troppo in prossimità del parto – possono essere somministrati con alcune precauzioni anche alle donne in gravidanza.
Se il trattamento è effettuato da un’équipe specializzata, secondo appositi criteri che riguardano le dosi, la modalità di somministrazione e i tempi della chemioterapia, almeno nel caso del tumore al seno per il quale c’è una maggiore documentazione scientifica, non sembra che la prole ne debba risentire, se non per un peso alla nascita tendenzialmente inferiore alla media, che però viene recuperato facilmente.
Solo ulteriori studi prolungati nel tempo potranno escludere altre possibili conseguenze a lungo termine, per esempio sul rendimento scolastico o sulla fertilità di questi bambini una volta cresciuti.
Altri trattamenti, come quelli di tipo ormonale (tamoxifene) o basati su farmaci a bersaglio molecolare (come trastuzumab, per esempio), non sono invece considerati sicuri per il feto e restano controindicati in gravidanza.
In ogni caso non esistono ancora raccomandazioni standard che si possano estendere a tutte le pazienti. Ogni caso richiede un approccio individualizzato, che deve essere concordato tra la gestante e i medici, possibilmente di un centro specializzato nella gestione di queste situazioni particolarmente delicate.
Perché se ne parla?
I casi di cancro diagnosticato in gravidanza sono solo una piccola quota del totale dei tumori che colpiscono le donne, ma la loro frequenza è in crescita dal momento che le donne arrivano ad avere un figlio in età sempre più avanzata, quando il rischio di sviluppare un cancro aumenta naturalmente. La gravidanza inoltre è il momento della vita in cui una donna sana si sottopone più facilmente a esami e controlli, per cui può capitare che che la malattia sia sospettata o individuata in fase iniziale in occasione di una di queste visite, a cui, se non aspettasse un figlio, magari la donna non si sarebbe sottoposta.
La maggior parte dei tumori che compaiono in gravidanza sono gli stessi che si verificano nelle donne che non sono in attesa, a pari fascia di età. Il più comune resta per tutte il tumore al seno, su cui è stata condotta la maggior parte delle ricerche esistenti.
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