La dipendenza dallo sport è un problema inventato da chi non ha il fisico?

28 Maggio 2019 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

È vero che un corpo tonico e muscoloso può essere oggetto di ammirazione e allo stesso tempo di invidia, in particolare agli occhi delle persone pigre e sedentarie. Come abbiamo già visto in questo articolo, di per sé lo sport non è un problema, tutt’altro, ma lo può diventare quando si supera il confine tra ciò che è salutare e quello che non lo è. È dimostrato che un’attività fisica regolare ha enormi benefici, a tutte le età, soprattutto in termini di prevenzione: protegge da molte malattie, in particolare quelle cardio- e cerebrovascolari e il diabete [1], migliora il benessere psicologico e riduce lo stress; nell’anziano contribuisce a mantenere e a migliorare l’equilibrio e le capacità motorie. Quando però lo sport viene praticato in modo eccessivo, al di là dei limiti posti naturalmente dallo sforzo, e diventa un’ossessione può snaturare la filosofia e lo spirito salutistico dell’attività fisica fino a renderla una vera e propria dipendenza.

È una dipendenza patologica?

La dipendenza può essere positiva o negativa. Si parla di dipendenza positiva quando un impegno fisico-sportivo elevato o eccessivo rispetto alla media è finalizzato a vivere in modo migliore e in un’ottica di prevenzione: per esempio, per tenere bassi i livelli di stress, per combattere il sovrappeso, per ridurre l’ipercolesterolemia, per controllare il diabete o comunque per migliorare il proprio corpo dal punto di vista fisico e/o estetico e per un benessere psicologico. “Questa forma di dipendenza (letteralmente exercise dependance) può essere interpretata quasi alla stregua di un farmaco per il trattamento di problemi cronici, quindi come un’attività preventiva (se non terapeutica), e non certo come causa di un problema. E permette di conservare gli equilibri psicologici, comportamentali e sociali”, spiega Pierluigi De Pascalis [2], specializzato in scienze motorie e fondatore della formazione e della divulgazione scientifica di NonSoloFitness.it. La definizione di dipendenza positiva dall’attività fisica è stata introdotta parecchi anni fa, nel 1976, dallo psichiatra William Glasser per distinguerla dalle “dipendenze negative”, quali sono l’alcolismo e le tossicodipendenze. Secondo Glasser, la dipendenza positiva implica un approccio verso attività sportive non competitive, che impegnino approssimativamente per un’ora al giorno, che non comportino una sofferenza emotiva, che sia possibile effettuare da soli o in compagnia, senza che la presenza di altri sia determinante per poter praticare la propria attività, e che lo svolgimento del lavoro non determini un eccessivo senso critico verso sé stessi [3].

Quando la dipendenza diventa negativa?

La dipendenza diventa negativa quando non è più fisica ma psicologica: l’attività fisica assume un ruolo centrale nella vita della persona e gradualmente sottrae sempre più tempo, spazio e interesse per altre attività sociali, fino a compromettere la salute psicofisica della persona [4]. Nel descrivere il profilo di chi ne è affetto De Pascalis scrive che “in assenza di una nuova sollecitazione, in genere i sintomi dell’astinenza si manifestano dopo 24-36 ore dall’ultimo allenamento, e chi ne è affetto non si preoccupa di eventuali indolenzimenti o traumi in corso, perché è evidente che l’allenamento rappresenta un evento importante e irrinunciabile, spesso più importante del proprio lavoro o della propria famiglia, sino a diventare la cosa più importante in assoluto”. Può succedere che il desiderio di migliorare la tonicità e la massa muscolare del proprio corpo inneschino una reazione a catena di comportamenti non salutari e che portano all’isolamento sociale.

Qual è quindi la differenza tra prendersi cura del proprio corpo e l’esserne ossessionati?

Harrison Pope, uno dei primi studiosi dell’ossessione per un corpo muscoloso, portava questo chiaro esempio: “Se lei si lava le mani cinque volte al giorno è sano, se lei si lava le mani duecento volte al giorno molto probabilmente ha un problema” [5]. Lavarsi le mani duecento volte è un sintomo di disagio, come lo è andare ripetutamente in palestra più di quanto il buon senso suggerirebbe di fare: l’allenarsi perde ogni valore salutistico e diventa un’ossessione che può sfociare in un disturbo psichico. Un esempio è la vigoressia, detta anche complesso d’Adone o bigoressia o anoressia inversa, che trova terreno fertile nella cultura del benessere e del mondo delle palestre. Al contrario della anoressia, la vigoressia è la ricerca ossessiva di un corpo forte con muscoli ipertrofici. Colpisce soprattutto i maschi tra i 25 e i 35 anni, seguiti da quelli tra i 18 e i 24 anni, per i quali ciò che conta è l’immagine del proprio corpo allo specchio. Sono persone dedite a una intensa attività fisica, che si fanno attrarre da allenamenti sempre più intensi e impegnativi ai quali abbinare una dieta iperproteica e spesso l’assunzione di integratori e anabolizzanti per aumentare la massa muscolare. Ma attenzione: allenarsi ogni giorno in palestra e rivolgere una attenzione particolare all’alimentazione non basta per fare una diagnosi di vigoressia. La ricerca del corpo scultoreo diventa patologica quando le azioni messe in atto per raggiungerla innescano una reazione a catena di comportamenti, che nell’insieme alterano la qualità di vita della persona e il suo stato di salute e che portano all’isolamento sociale e alla perdita di altri interessi.

Quali sono i rischi per chi soffre di vigoressia?

Nel suo libro Vigoressia, De Pascalis scrive chiaramente che “la vigoressia porta con sé una serie di problemi connessi con lo stile di vita che induce a seguire. Da un punto di vista fisico i rischi sono fondamentalmente legati a una alimentazione fortemente sbilanciata, all’eventuale impiego di anabolizzanti, e naturalmente a sessioni di allenamento di estrema intensità. Sotto il profilo psicologico, inoltre, i comportamenti messi in atto concorrono a destabilizzare ulteriormente il soggetto, con grave compromissione dell’equilibrio psichico e dell’umore” [2]. Per esempio, è dimostrato che l’abuso di anabolizzanti possa portare a morte prematura. Una ricerca condotta sui powerlifter (gli atleti che praticano una disciplina in cui si eseguono vari tipi di alzate di potenza) e pubblicata sull’International Journal of Sports Medicine ha evidenziato che il 12,9% degli atleti dopati moriva prima dei 40 anni, contro il 3,1% di chi non ne aveva fatto uso. Tra gli utilizzatori di sostanze illecite presi in esame, il 37,5% era morto suicidandosi e una percentuale uguale di infarto acuto del miocardio, il 12,5% di coma epatico. Quindi c’è una stretta correlazione tra la morte prematura e l’impiego di anabolizzanti [6].

Quindi dottore il mondo del fitness e del bodybuilding è pericoloso?

Non esattamente. Come dicevamo all’inizio andare in palestra ha molteplici benefici per la salute e per l’aspetto fisico, benefici che hanno ricadute positive sul versante psicologico, emotivo e sociale della persona. Inoltre chi pratica un’attività fisica regolare fa più attenzione a seguire un’alimentazione corretta e a mantenere il peso forma. Il problema potrebbe sorgere quando ci si allontana per eccesso o per difetto da una condizione equilibrata. De Pascalis conclude il suo libro con il consiglio “di praticare attività sportiva, di iniziare a farlo quanto prima nell’arco della vita cercando di farlo il più a lungo possibile, poiché nulla come il movimento favorisce stati d’animo positivi, stimola l’apprendimento cognitivo, insegna il rispetto e la tolleranza, ed è un impagabile aggregante oltre che un’insostituibile scuola di vita. Ma il momento in cui l’allenamento comincia a trasformarsi da piacere in dovere, è anche il momento di fermarsi e magari chiedere un aiuto”.

Argomenti correlati:

Attività fisicaMedicina

Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
Tutti gli articoli di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)