La sclerosi multipla (o sclerosi a placche) è una malattia infiammatoria cronica autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale e le cui cause sono ancora oggetto di studio. Da molti anni si sospetta che nella sua genesi sia coinvolto un virus molto comune e diffuso, il virus di Epstein-Barr (EBV). Qualche mese fa, le prove a carico di questo agente infettivo – responsabile, tra l’altro, della mononucleosi, anche detta “malattia del bacio” – si sono fatte più stringenti. Il dato più recente stima infatti che i portatori del virus di Epstein-Barr abbiano un rischio oltre trenta volte maggiore di sviluppare sclerosi multipla rispetto a chi non lo ha mai incontrato.
Ciò non significa che l’infezione determini invariabilmente la malattia neurologica. Anzi, in valore assoluto, questo rischio resta molto basso e la maggior parte di chi si infetta non svilupperà mai la sclerosi multipla. Quel che si osserva è piuttosto il contrario: nei malati di sclerosi multipla si riscontra quasi sempre un’infezione da EBV [1]. Il 95% della popolazione adulta, infatti, nel corso della sua vita ha contratto, spesso in maniera asintomatica, il virus di Epstein-Barr che, come altri herpes virus più noti, resta latente nelle cellule e si riattiva solo in determinate condizioni.
Se il virus della mononucleosi fosse l’unica causa della sclerosi multipla, questa colpirebbe quasi tutta la popolazione. Invece, in Italia, un Paese dove la prevalenza della sclerosi multipla è mediamente alta rispetto ad altre zone, ne soffre approssimativamente una persona su mille. Ecco perché non si parla di una sola causa per questa malattia, che con ogni probabilità trae origine dalla combinazione tra una particolare predisposizione genetica e uno o più fattori ambientali a cui l’individuo può essere esposto nel corso della sua vita. Il virus di Epstein-Barr è probabilmente uno dei più importanti, ma da solo non basta, così come non basta un certo assetto genetico.
Le mutazioni del DNA che caratterizzano questi pazienti, diversamente da ciò che accade in caso di malattie genetiche ereditarie, non sono infatti in grado da sole di provocare la malattia. Inducono piuttosto una maggiore facilità del sistema immunitario a rivoltarsi contro l’organismo, scatenando in qualche caso la sclerosi multipla e in altri casi condizioni differenti che, a causa di questo stesso meccanismo di azione, sono dette malattie autoimmuni [2].
Dottore, da cosa dipende la sclerosi multipla?
Prima di tutto occorre chiarire che la sclerosi multipla non ha nulla a che vedere con un’altra grave malattia di cui si parla spesso, la sclerosi laterale amiotrofica, anche detta SLA, una rara malattia neurodegenerativa dell’età adulta in cui vengono progressivamente distrutti i motoneuroni, cioè le cellule del sistema nervoso centrale responsabili del movimento, con una conseguente paralisi progressiva che alla fine coinvolge anche i muscoli respiratori [3].
La sclerosi multipla ha oggi maggiori possibilità di trattamento e può esordire anche in persone giovani, non solo con difficoltà di movimento, ma anche con sintomi relativi alla sensibilità, come formicolii agli arti o disturbi della vista. Le sue manifestazioni dipendono da anomalie nella trasmissione degli impulsi nervosi nel cervello e nel midollo spinale dovute a un meccanismo di tipo autoimmune: le difese dell’organismo sbagliano bersaglio e, invece di proteggerlo da agenti esterni, attaccano il rivestimento delle fibre nervose. Si tratta di una guaina costituita da una sostanza detta mielina, che facilita la trasmissione degli impulsi e determina il colore bianco di alcune parti del sistema nervoso, la cosiddetta “materia bianca”, contrapposta alla “materia grigia”. Quando questa è danneggiata, come appunto accade nella sclerosi multipla, agli esami strumentali come la risonanza magnetica si osserva quindi un quadro di “demielinizzazione”.
Dottore, ma cosa c’entra il virus della mononucleosi?
Nella caccia ai fattori scatenanti una reazione autoimmune, gli agenti infettivi sono sempre tra i primi sospettati. Poiché sono i principali bersagli delle difese dell’organismo, capita spesso che agiscano come “trigger”, risvegliando il sistema che, nella foga di combatterli, sbaglia bersaglio. Ciò accade soprattutto quando il microrganismo presenta alle cellule immunitarie molecole simili ad altre che si trovano nei tessuti umani. Per cercare di eliminare ogni traccia dell’invasore, globuli bianchi o anticorpi prendono di mira anche cellule sane, colpevoli solo di assomigliare all’estraneo da sconfiggere [4].
“Un rapporto di causalità implica che alcuni individui che hanno sviluppato sclerosi multipla dopo l’infezione da virus di Epstein-Barr non avrebbero avuto la malattia neurologica senza incontrare il virus” spiega Alberto Ascherio, il ricercatore di origine italiane che ha coordinato l’ultimo, importante studio dell’Università di Harvard pubblicato sulla rivista Science. “Escludendo la possibilità di un trial randomizzato (una ricerca, ovviamente improponibile dal punto di vista etico, in cui esporre volontariamente una metà dei partecipanti al virus per vedere in quanti sviluppano sclerosi multipla rispetto a chi non lo incontra, n.d.r.), il miglior modo per studiare questa eventualità controfattuale è un ‘esperimento naturale’, cioè un’indagine che segue nel tempo una coorte di individui inizialmente negativi a EBV, alcuni dei quali nel corso degli anni si infetteranno e altri no”.
L’opportunità di condurre questa ricerca è stata offerta da un enorme database dell’esercito degli Stati Uniti, le cui reclute sono sottoposte a un esame del sangue per la presenza di HIV al momento dell’arruolamento e poi ogni due anni. Nel corso di vent’anni, dal 1993 al 2013, i ricercatori di Harvard hanno studiato più di 10 milioni di militari di entrambi i sessi e di diverse origini etniche, individuando 801 soldati che in questo periodo hanno sviluppato sclerosi multipla. Grazie alle procedure dell’esercito hanno quindi potuto esaminare i campioni di siero rimasti dai prelievi periodici, conservati presso il Serum Repository del Ministero della Difesa, verificando che solo per uno dei pazienti non c’erano prove di un’infezione da EBV precedente lo sviluppo della sclerosi multipla. Viceversa, la presenza del virus era molto meno costante nei campioni di 1.500 colleghi le cui caratteristiche erano sovrapponibili, ma che nello stesso periodo di tempo non si erano ammalati, tanto da poter stimare che l’infezione si associava a un aumento del rischio di 32 volte, superiore a quello che lega il fumo di sigaretta al tumore del polmone (che a seconda delle stime arriva fino a un incremento di 30 volte) [7]. I ricercatori hanno esteso la ricerca ad altri virus comuni, come il citomegalovirus, senza trovare altre corrispondenze.
Un ulteriore passo nel loro lavoro ha poi aggiunto solidità all’ipotesi del ruolo dell’infezione. Negli stessi campioni di siero gli studiosi hanno cercato anche un marcatore del danno alle cellule nervose, cioè le proteine dei neurofilamenti a catena leggera (NFL), che sono elevate solo nei pazienti con sclerosi multipla, non nei soggetti sani. Ebbene, questi valori cominciavano ad aumentare solo dopo l’infezione. In nessun caso sono stati trovati ad alti livelli (questo avrebbe indicato una malattia già in corso) prima del contatto con il virus.
Dottore, ma quali sono le conseguenze di questa scoperta?
L’impatto pratico di questi dati potrebbe essere notevole. La conferma del ruolo importante del virus di Epstein-Barr nello sviluppo di una malattia così seria e potenzialmente invalidante potrebbe incoraggiare lo sviluppo di vaccini in grado di impedire l’infezione, con la conseguenza di ridurre il rischio di sclerosi multipla, evitare la fastidiosa, anche se benigna, mononucleosi e forse limitare anche il numero di nuovi casi di tumori legati a questo virus, come il linfoma di Burkitt o il carcinoma nasofaringeo [8].
In corso di studio ci sono anche farmaci antivirali che, eliminando il virus, potrebbero ridurre la persistenza dello stimolo nei confronti del sistema immunitario e altri in grado di attaccare in maniera specifica le cellule B che lo ospitano. Per il momento si tratta tuttavia di ricerche ancora in fase precoce. Per il trattamento della sclerosi multipla esistono oggi terapie che non riescono a guarirla, ma sono molto efficaci nel rallentarne o fermarne l’evoluzione; per la prevenzione, occorre ancora attendere [9].
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