Il reggiseno, soprattutto con il ferretto, provoca il cancro?

29 Luglio 2019 di Roberta Villa

Da dove nasce l’idea che il reggiseno provochi il cancro?

I primi timori sul fatto che l’uso del reggiseno potesse aumentare il rischio di cancro al seno sono stati sollevati da una coppia di antropologi, Sydney Ross Singer e Soma Grismaijer, in un libro del 1995 dal titolo Dressed to kill (Vestiti per uccidere) [1]. I due ricercatori, che non erano medici, basavano questa teoria sull’osservazione che nella popolazione maori australiana e in altre culture, come quella giapponese – dove le donne per tradizione stavano a seno scoperto oppure non indossavano questo indumento – l’incidenza della malattia era in origine molto bassa, per poi avvicinarsi o uniformarsi rapidamente a quella delle etnie di origine europea quando, con l’integrazione, si diffondeva anche tra loro l’uso del reggiseno.

reggisenoNel libro gli studiosi sostenevano inoltre di aver condotto essi stessi negli Stati Uniti una ricerca su più di 4.000 donne, metà delle quali portatrici di tumore al seno, osservando che il rischio di ammalarsi sembrava aumentare al crescere del numero di ore al giorno in cui una donna portava il reggiseno, con una probabilità di cancro che raggiungeva il 75% tra coloro che lo tenevano anche per dormire e un rischio 125 volte maggiore tra chi lo teneva 24 ore al giorno e chi non lo usava mai, se non occasionalmente.

A supporto della loro tesi, Singer e Grismaijer citavano anche un altro studio pubblicato dall’Università di Harvard pochi anni prima, su quasi 4.000 pazienti con tumore al seno confrontate con quasi 12.000 controlli sani: tra i risultati di questo lavoro vi era anche il dato secondo cui, tra le donne prima della menopausa, quelle che non portavano il reggiseno avevano un rischio di tumore pari circa alla metà rispetto alle altre. Il resto del lavoro però era concentrato sulle dimensioni del seno, e segnalava un aumento del rischio al crescere della misura della coppa [2].

La spiegazione del fenomeno addotta dai due antropologi, e ancor oggi sostenuta da chi crede alla loro teoria, era che la compressione esercitata dal reggiseno impedisca in qualche modo la libera circolazione della linfa, frenando il drenaggio dal tessuto mammario di tossine potenzialmente cancerogene assorbite dall’ambiente malsano in cui viviamo. La presenza del ferretto alla base della coppa rappresenterebbe un ostacolo in più, che aumenterebbe ulteriormente il rischio di cancro.

Pur non essendo stata pubblicata su una rivista scientifica soggetta a verifica da parte di oncologi, ma solo su un libro pubblicato a spese degli autori, il sospetto si diffuse rapidamente tramite passaparola e poi, in maniera sempre più estesa, attraverso la rete.

Più recentemente l’allarme è stato rilanciato da un lungo articolo pubblicato su Goop.com, il sito dell’attrice Gwyneth Paltrow che dà largo spazio alla propaganda e al commercio di prodotti e pratiche “alternative”, in teoria finalizzate al benessere. Qui un osteopata riprende la teoria dei due antropologi statunitensi, arricchendola di nuove interpretazioni: che la formazione dei tumori sia favorita dall’aumento di temperatura provocato dal fatto di coprire il seno – di per sé un “organo esterno” –, o che, oltre a bloccare la circolazione della linfa, il ferretto metallico possa amplificare le onde elettromagnetiche emesse dai tanti dispositivi che ci circondano, primi fra tutti i cellulari (per questo punto si rimanda alla scheda “Microonde, cellulari o Wi-Fi fanno venire il cancro?”). Infine, per la sua posizione, il ferretto potrebbe interferire con punti energetici dell’agopuntura legati a stomaco e cistifellea. Ma questo, col cancro al seno, non si capisce cosa c’entri [3].

Perché ci si crede?

Le parole con cui, alla fine del suo articolo, l’osteopata invita a uscire più spesso senza reggiseno svelano come dietro la scelta di aderire o meno a questa credenza, ci sia, come sempre, qualcosa che va al di là della presenza o della forza di prove scientifiche: “Il potere e l’indipendenza che proverete andando in giro così (senza reggiseno, NdR) non deriverà dal rifiuto di un’oppressione politica, ma dalla cura che così facendo avrete della vostra salute e dalla resistenza che opporrete nei confronti delle norme sociali che cercano di comprometterla”.

Se nei primi decenni del Ventesimo secolo il reggiseno ha rappresentato un grosso passo avanti rispetto ai rigidi corsetti che in precedenza costringevano il corpo femminile, nell’ambito del movimento femminista esso stesso diventò a sua volta bersaglio di una battaglia che vedeva in quest’indumento un altro mezzo di oppressione o di oggettivazione della donna, finalizzato a coprirne pudicamente le caratteristiche naturali, quasi ce ne si dovesse vergognare, o a modificarle ed esaltarle, con imbottiture e ferretti, solo per compiacere gli uomini.

Se poi le femministe davvero abbiano mai bruciato i reggiseni non si sa, ma da allora certamente molte donne che prima non avrebbero mai osato farlo si sono sentite libere di non indossarlo, per comodità o per non aderire a un modello imposto dalla società. Da quando il Manifesto di liberazione della donna mostrò una camicia femminile orgogliosamente sbottonata su un petto libero da qualunque costrizione ne è passata di strada, ma ancora ogni tanto capita che qualcuno si scandalizzi di intravedere sotto i tessuti un capezzolo scoperto o un seno che invece di essere sostenuto segue docilmente e naturalmente la legge di gravità.

Per quanto sembri assurdo, quindi, ancora oggi qualcuno sente l’imposizione di questo indumento da parte della società, e vive la scelta di lasciarlo nel cassetto come un atto di libertà. Molto più spesso però chi non lo usa lo fa semplicemente perché è più comoda così: per chi ha un seno piccolo e sodo, di fatto, può essere un di più; per chi lo ha grande e pesante, invece, indipendentemente da qualunque ideologia, il reggiseno rappresenta un sostegno a cui è difficile rinunciare, non solo per motivi estetici, ma per il peso che sovraccarica la schiena.

Secondo Susan Love, autrice del libro Breast book, la convinzione che togliere il reggiseno possa ridurre il rischio di cancro potrebbe nascere dal nostro desiderio di prendere controllo su aree della vita che ci sfuggono, dominando così la paura del cancro e imputandolo agli interessi economici di qualcuno [4]. Dietro alla teoria del legame tra reggiseni e cancro fiorisce infatti l’idea complottista secondo cui i rischi dell’uso dell’indumento sarebbero tenuti appositamente nascosti dalle aziende di biancheria intima per non perdere mercato. Ma la nascita di linee di “lingerie femminista” o addirittura sedicenti “anticancro” mostra che c’è sempre qualcuno che trae vantaggio economico dall’una o dall’altra convinzione, e che è difficile basarsi sulla presenza di questi interessi economici per definire che cosa è vero e che cosa non lo è, senza ricorrere ai dati prodotti dalla scienza.

Che cosa c’è di vero in queste teorie sul reggiseno?

I dati epidemiologici confermano che la frequenza di tumori al seno, così come di molte altre malattie tipiche delle società opulente, aumentano nelle popolazioni che passano ad adottare uno stile di vita per così dire “occidentale”. Ma questi cambiamenti coinvolgono moltissimi fattori che vanno ben al di là dell’uso del reggiseno, e che comprendono dall’alimentazione alla sedentarietà, dal numero di figli alle modalità di allattamento. In parte per effetto di questi cambiamenti, fondamentale è l’aumento di incidenza dell’obesità, che rappresenta un’importante condizione predisponente per il tumore al seno.

È vero quindi che le popolazioni maori, giapponesi o delle isole Figi hanno incrementato il loro rischio di tumori al seno a contatto con la civiltà “occidentale”, ma il fenomeno si spiega già con l’aumento di obesità e il minor numero di figli, avuti più tardi e allattati di meno, senza dover ricorrere a fantasiose ipotesi alternative.

D’altronde il sovrappeso stesso potrebbe mediare la correlazione tra il numero di ore in cui le donne portano il reggiseno e un aumento del rischio di tumore, dal momento che, quando al tessuto mammario si somma una grande quantità di tessuto adiposo, il seno è più pesante e si può tendere più facilmente, per comodità, a portare il reggiseno più a lungo, anche durante la notte.

Questa interpretazione, in cui l’uso del reggiseno è solo un indicatore indiretto del rischio di cancro, è assai più credibile, perché l’obesità è un fattore di rischio ben noto per il tumore. Viceversa, la spiegazione che fa riferimento a una difficoltà di drenaggio della linfa dovuta al reggiseno è biologicamente molto poco plausibile, dal momento che la maggior parte di questo flusso è raccolto dai linfonodi ascellari, con cui l’indumento non interferisce, né sono noti altri tumori derivati dalla costrizione dei tessuti.

Che poi sia meglio indossare un reggiseno di una forma e di una misura adatta, che non strizzi e non lasci i segni, e in cui il ferretto, se si desidera averlo, non punga e non faccia male, è abbastanza ovvio, ma solo per il proprio comfort personale, certo non per il rischio di provocare il cancro.

Anche l’associazione tra tumore e uso del reggiseno nelle donne in premenopausa, riportato dallo studio di Harvard citato da Singer e Grismaijer a supporto della loro tesi, può essere letto in modo diverso: il minor rischio di tumore nelle donne che non portavano il reggiseno prima della menopausa era con ogni probabilità a sua volta mediato dalle dimensioni del seno stesso, come conferma l’aumento del rischio legato al crescere della taglia. È più facile che una donna con il seno più piccolo non porti il reggiseno, ma non è certo questo “effetto collaterale” che la protegge.

Le illazioni dei due antropologi, accompagnate negli anni successivi da segnalazioni aneddotiche e piccoli studi pubblicati su riviste poco note, ma mai sostenute da ricerche scientifiche affidabili, furono definitivamente smentite nel 2014. Lu Chen, un ricercatore del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, negli Stati Uniti, confrontò un migliaio di donne con tumore al seno in post menopausa con quasi 500 donne sane, senza trovare nessuna associazione tra il rischio di ammalarsi e il tipo di reggiseno, la presenza del ferretto, tempi e modalità del suo uso. Sebbene anche questa ricerca abbia i suoi limiti, dal momento che non ha potuto coinvolgere un numero sufficiente di donne che non facevano completamente uso dell’indumento, i suoi risultati confermano l’esistenza di molti fattori di rischio (familiarità, assenza di figli, uso corrente di terapia ormonale sostitutiva per la menopausa, eccetera), tutti indipendenti dall’uso del reggiseno, che invece sembra irrilevante: indossarlo da molti o pochi anni, per poche o molte ore al giorno, preferirlo con o senza ferretto non ha nessun effetto sul rischio di malattia [5].

Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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