Nell’ottobre del 2017 è stato pubblicato sulla rivista JAMA Oncology, una delle più autorevoli in campo oncologico, uno studio italiano relativo all’impiego di un farmaco per l’ipertensione – il propranololo – nel trattamento del melanoma [1]. I risultati, i quali hanno messo in evidenza un possibile effetto di questo agente in termini di riduzione della probabilità di andare incontro a una recidiva di malattia, sono stati immediatamente ripresi da moltissimi quotidiani e siti internet. Come spesso accade, tuttavia, molti hanno riportato la notizia esasperando la valenza del dato scientifico, il quale, per quanto positivo, non può essere considerato definitivo.
Perché un farmaco anti-ipertensivo nel trattamento del melanoma?
Il propranololo è un principio attivo appartenente alla famiglia dei beta-bloccanti utilizzato nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Il suo utilizzo in ambito oncologico deriva da studi pre-clinici che hanno dimostrato come questa tipologia di farmaci sia in grado di inibire la formazione di nuovi vasi sanguigni all’interno del tessuto canceroso e di ridurre la migrazione delle cellule tumorali [2,3].
Il primo studio relativo alla possibile efficacia del propranololo nell’ambito del melanoma risale invece al 2011, quando lo stesso gruppo di ricerca responsabile dello studio pubblicato su JAMA Oncology aveva scoperto che molti dei pazienti che non erano andati incontro a recidive di malattie avevano assunto beta-bloccanti per il trattamento di altre patologie [4].
I ricercatori hanno quindi deciso di valutare un possibile utilizzo off-label del propranololo, ovvero nell’ambito di una patologia – in questo caso il melanoma – diversa da quelle per cui il farmaco è stato approvato dall’ente regolatorio. Un’eventualità, questa, che si verifica molto spesso in aree della medicina, come l’oncologia, in cui le opzioni terapeutiche disponibili sono spesso insufficienti [5].
Cosa è emerso dallo studio pubblicato nel 2018 su JAMA Oncology?
Sulla scia dei risultati del primo studio, tra il 2011 e il 2013 il gruppo di ricerca italiano – guidato da Vincenzo de Giorgi del Dipartimento di Scienze Dermatologiche dell’Università di Firenze – ha deciso di realizzare una ricerca prospettica (andando quindi a valutare gli effetti futuri della somministrazione della terapia) relativa all’impiego del propranololo come trattamento off-label del melanoma [1].
In particolare, i ricercatori hanno proposto il trattamento con propranololo a 53 pazienti che avevano appena ricevuto una diagnosi di melanoma di stadio compreso tra IB e IIIA. Di questi, 19 hanno accettato il trattamento con propranololo, andando a costituire il gruppo sperimentale, mentre 34 lo hanno rifiutato, costituendo così il gruppo di controllo. I parametri presi in considerazione dal gruppo di ricerca erano la cosiddetta “sopravvivenza libera da progressione di malattia”, ovvero il periodo di tempo in cui la patologia di un paziente non va incontro a peggioramenti, e la sopravvivenza complessiva.
Dopo un follow-up medio di tre anni, il melanoma era progredito in 14 dei 34 soggetti (42%) del gruppo di controllo e solo in 3 dei 19 soggetti (15%) del gruppo sottoposto a trattamento con propranololo. Nello stesso arco di tempo, sono deceduti 6 pazienti nel gruppo di controllo (17,7%), di cui 5 a causa del melanoma e 2 nel gruppo sperimentale (10,5%), di cui uno a causa del melanoma.
Prendendo in considerazione diverse variabili potenzialmente in grado di influenzare l’efficacia del trattamento (come ad esempio l’età e la presenza di ulcere), i ricercatori dell’Università di Firenze hanno potuto stimare una riduzione dell’80% del rischio di recidive, nel periodo di tempo considerato, nei pazienti trattati con propranololo rispetto a quelli del gruppo di controllo.
Quindi il propranololo è efficace nella cura del melanoma?
È ancora presto per dirlo. Per poter stabilire l’efficacia di un trattamento, infatti, è necessario realizzare uno studio randomizzato in doppio cieco, ovvero in cui i soggetti vengono assegnati al gruppo sperimentale o a quello di controllo in modo casuale e senza che né loro né i ricercatori siano consapevoli dell’assegnazione. Inoltre, questo tipo di ricerche deve prendere in considerazione campioni molto ampi (solitamente costituiti da centinaia di pazienti) e prevedere la somministrazione di un placebo ai soggetti inclusi nel gruppo di controllo.
Lo studio realizzato da De Giorgi e colleghi, come evidenziato dagli stessi autori nella parte conclusiva dell’articolo, non può quindi essere considerato definitivo in quanto il campione era di dimensioni molto ridotte e l’assegnazione dei pazienti al gruppo sperimentale era stata effettuata sulla base della volontà espressa dai pazienti stessi.
Inoltre, va sottolineato come all’efficacia del trattamento in termini di una migliore sopravvivenza libera da progressione di malattia non sia corrisposta una riduzione della mortalità: infatti, nonostante un trend positivo, per quanto riguarda la sopravvivenza dei pazienti la differenza tra i due gruppi non è risultata statisticamente significativa.
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