Scaricare la responsabilità e le colpe sugli altri, spesso su chi riteniamo diverso o su chi è in minoranza, e trovare capri espiatori è un atteggiamento degli individui e della società molto comune – anche in caso di pandemia – e da tempo oggetto di interesse. A parlarne in modo approfondito è stato in particolare un grande filosofo e antropologo francese dello scorso secolo, René Girard, che nei suoi più importanti saggi scriveva di come la società tenda continuamente a trovare un colpevole, una vittima, per riportare la quiete all’interno della comunità [1].
In presenza di un’emergenza o di una crisi, la società civile per definizione auspica una pronta soluzione, sollecitando interventi rapidi e risolutivi da parte delle autorità. Non sempre purtroppo è possibile agire sulle cause o sui determinanti dell’emergenza e questo può indurre a identificare una causa accessibile che permetta di sfogare risentimento e paure. Le riflessioni psicologiche e antropologiche su questi problemi sono molteplici: l’opinione pubblica tende a negare o quantomeno a trascurare la complessità che molto spesso è alla base delle crisi e cerca nell’individuo o in gruppi sociali la causa e l’origine di ciò che la intimorisce, la preoccupa o la ferisce. Non ha ovviamente importanza disporre di prove che le persone accusate abbiano realmente commesso quello di cui sono accusate: i pregiudizi o le credenze sono determinanti.
Ma cosa c’entra con la pandemia?
Cercare un capro espiatorio durante eventi che generano paura e incertezza, come le grandi epidemie, avveniva già in passato. Durante l’epidemia di Peste Nera ad essere perseguitati furono gli ebrei, giudicati colpevoli di aver avvelenato i pozzi e diffuso intenzionalmente il morbo, come ha ricordato al Financial Times Simon Shama. E ha aggiunto: “dei focolai di colera in città come Boston e New York furono incolpati gli immigrati, il più delle volte irlandesi, che per necessità erano riuniti in condizioni sanitarie non adeguate” [2]. Sempre negli Stati Uniti, al giorno d’oggi, il razzismo nei confronti degli asiatici ha avuto una spinta tramite i social network, anche quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha parlato del coronavirus come di un “virus cinese” [3].
In Italia non abbiamo fatto lo stesso… o no?
Prima che il numero dei contagi esplodesse in modo preoccupante, a inizio febbraio, in Italia si sono verificati numerosi atti di razzismo nei confronti di persone di origine asiatica. A partire dal caso avvenuto a Roma in cui un commerciante “a causa delle misure di sicurezza internazionali” ha vietato l’accesso a “tutte le persone provenienti dalla Cina” nel proprio locale; dalle aggressioni verbali sul lungarno di Firenze nei confronti di due turisti cinesi da parte di un cittadino toscano; fino all’episodio di discriminazione avvenuto nei riguardi di Lala Hu, docente di marketing all’Università Cattolica di Milano, il cui appello ha dato il via alla campagna social: “Sono cinese, non sono un virus” [4].
Dottore, questi pregiudizi sono ovunque?
Negli Stati Uniti, l’insistenza con cui il Presidente Trump ha voluto riferirsi alla Covid-19 come “virus cinese” ha rinforzato pericolosamente la percezione di questa malattia come un pericolo di origine etnica. Il paradosso è che in alcune megalopoli cinesi ora sono gli africani a essere sottoposti a quarantena forzata e a test anche se non presentano sintomi [5]. In India, invece, a essere al centro del mirino sono i musulmani, in Pakistan la minoranza degli Hazara. In Uganda sono i bianchi, i musungu, a essere considerati untori. A raccontare una parte della storia è il medico italiano Giovanni Dall’Oglio della ONG Cuamm, Medici dell’Africa in una recente intervista: “La gente per strada mi indica con il dito e mi chiama ‘Corona’. I più simpatici lo fanno in modo scherzoso, altri, soprattutto in città, invece hanno un tono preoccupato o anche minaccioso. Sono europeo, sono italiano e quindi mi apostrofano come ‘Musungu Corona’: uomo bianco portatore di coronavirus. A Kampala, sul muro della casa dove abito con la famiglia, hanno scritto: ‘Vai via’” [6].
Quindi esiste discriminazione razziale anche quando si tratta di una pandemia, o in generale di salute?
Sappiamo che esiste. Prendendo come esempio gli Stati Uniti, le persone di origine latina e i neri americani hanno esiti delle cure peggiori del 30-40% rispetto agli americani bianchi. Questo vuol dire che chi nasce in una famiglia afroamericana o nativa americana ha un tasso di mortalità significativamente più alto. I bambini neri hanno il doppio delle probabilità di morire durante il loro primo anno di vita rispetto ai bambini bianchi. Le donne nere e native americane hanno due o tre volte più probabilità di morire per condizioni legate alla gravidanza rispetto alle donne bianche. Oggi, per esempio, la pandemia di Covid-19 sta uccidendo i neri a una velocità 2,4 volte superiore rispetto ai bianchi [7].
Le cose si complicano ulteriormente quando la malattia si carica di significati morali e religiosi, e viene vista come conseguenza naturale di comportamenti contrari alla natura, alla morale, alla religione. Un esempio classico è quello della sifilide, causata dal batterio Treponema pallidum, che si diffonde in prevalenza per via sessuale. Mentre Carlo VIII di Valois si accingeva nel 1494 a conquistare Napoli, tra le sue truppe scoppiò una epidemia di questa malattia, subito ribattezzata dai soldati “mal di Napoli”, mentre i napoletani la chiamarono “mal francese”, che poi è il nome che ha prevalso, assieme a lue. La sifilide oggi si cura con la penicillina, ma anche molto tempo dopo la disponibilità della cura la malattia ha resistito, perché chi ne soffriva era colpito da un doppio stigma: per le lesioni cutanee che provocava, non esattamente piacevoli a vedersi, e per il fatto che, trasmettendosi per via sessuale, era associata a dissolutezza e disordine sessuale, e veniva spesso vissuta come una punizione per comportamenti contrari alla morale e alla religione. E venendo a parlare di malattie a trasmissione sessuale che provocano stigma sociale e morale, non possiamo non parlare dell’AIDS o sindrome da immunodeficienza acquisita [8].
Ma la situazione al giorno d’oggi è migliorata?
Forse sì, ripensando al passato e alla ricostruzione che di queste vicende hanno fatto Giuseppe Ippolito – direttore dell’Istituto nazionale per le malattie infettive – e Salvatore Curiale: “[Sono molti gli] episodi di caccia all’untore che hanno accompagnato le epidemie, e che nascevano da un misto di ignoranza sui meccanismi di contagio, superstizioni religiose e credenze popolari, ben miscelate con faide di paese, vendette private e sfiducia nel Governo, tutti ingredienti che in Italia non sono mai mancati. Racconta Luigi Settembrini, all’epoca insegnante di liceo a Catanzaro, che durante l’epidemia di colera del 1837 si era diffusa la credenza che il Governo borbonico avesse inviato il veleno agli intendenti – i funzionari pubblici che amministravano le provincie – con l’ordine di farlo versare nelle acque per avvelenare i cittadini” [7].
Tornando al razzismo, non pensavo che la situazione fosse così grave…
Proprio a supporto di una prospettiva non molto ampia, è utile un’interessante, seppur angosciante, panoramica che il World Economic Forum ha preparato per far comprendere come il razzismo si sia diffuso parallelamente alla pandemia di Covid-19 [9]. Anche Sheela Ivlev, una terapista occupazionale molto seguita su internet, ha proposto una riflessione importante: “Smettere di notare il colore della pelle non aiuta e peggiora le cose. Devi riconoscere la differenza e rispettarla. Devi prenderti il tempo per comprendere le esperienze, i punti di forza e i limiti che caratterizzano ogni persona: questo si tradurrà in un trattamento più efficace e in migliori risultati per la salute” [6].
Dottore, ho sentito parlare anche di discriminazione nei confronti degli operatori sanitari durante la pandemia, è vero?
Durante la pandemia si sono verificati anche casi di stigma e violenza nei confronti degli operatori sanitari, proprio a causa della loro attività professionale, secondo quanto descrive l’ultimo rapporto globale di Amnesty International sulla situazione degli operatori sanitari al tempo della Covid-19 [10]. “In Messico un’infermiera è stata inzuppata di cloro mentre camminava lungo una strada e nelle Filippine a un lavoratore di un ospedale è stata gettata sul volto della candeggina” si legge nel comunicato della ONG inglese, la quale aggiunge che “casi del genere evidenziano un clima di disinformazione e stigma e mettono in luce quanto sia importante che i governi forniscano informazioni accurate e accessibili sulla diffusione della pandemia”.
In Italia dallo stesso report emerge che “oltre ai rischi per la salute dati dalla possibilità di contrarre il virus e dalle eventuali conseguenze psicologiche come il burnout o la depressione, con un’incidenza particolare di problemi di salute mentale sulle giovani donne, gli operatori sanitari hanno anche vissuto situazioni di discriminazione e censura alla loro libertà di espressione. Da un certo momento in poi, durante la fase di lockdown, la Covid-19 ha provocato stigma sociale e comportamenti discriminatori nei confronti di persone appartenenti a determinate etnie e/o categorie (che si riteneva essere state in contatto con il virus), tra queste anche quella degli operatori sanitari che, in alcuni casi, da eroi sono passati a essere classificati come ‘untori’. Allo stato attuale è in fase di approvazione in Parlamento il disegno di legge recante ‘Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni’, che prevede tra le altre cose sanzioni amministrative fino a 5.000 euro per chiunque tenga condotte violente, ingiuriose, offensive o moleste nei confronti di personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria, oltre all’istituzione di uno specifico Osservatorio nazionale” [10].
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