Dialogo, rispetto e giustizia curano più efficacemente.
Giorgio Bert
L’avvento della tecnica medica, la crescita della capacità diagnostica e l’iperspecializzazione che hanno caratterizzato la storia della medicina dalla seconda metà del Novecento hanno portato a un radicale cambiamento nel rapporto tra il medico e i propri pazienti.
Innanzitutto il rigore strumentale ha prevalso sulla relazione medico-paziente e la comunicazione è stata ridotta al minimo indispensabile, causando generale senso di disumanizzazione della medicina e delle cure e facendo emergere il problema della scarsa compliance dei pazienti.
Al passo con l’avvento del consumismo i pazienti hanno iniziato a considerarsi sempre meno “pazienti” e sempre più “utenti-consumatori” aventi diritto di servizi e prestazioni, al pari di un acquirente di consumo, nell’illusione che qualunque atto medico abbia sempre l’esito richiesto[1]. Come osserva anche Ivan Illich, non solo la cura della malattia, ma anche la cura della salute sono diventate merce, qualcosa che si compra e non che si fa[2].
Il corpo malato viene spesso letto come un oggetto rotto: nei casi più semplici, come un mal di testa o un’influenza, va aggiustato con una pastiglia; nei casi più gravi il medico, alla stregua di un tecnico, è tenuto ad aggiustarlo nel minor tempo possibile e se non è in grado di farlo è considerato incompetente. «Il fatto è che il paziente non è un apparecchio guasto da riparare e il medico non è solo un tecnico esperto. Medico e paziente sono innanzitutto due persone, e l’incontro tra persone in una situazione di coinvolgimento reciproco definisce una relazione; cosa che non avviene, come è ovvio, tra un tecnico e un elettrodomestico.»[3]
È cambiato anche il tipo di intervento richiesto ai professionisti della cura. Fino a cinquant’anni fa la maggior parte degli interventi era rivolta a pazienti acuti, perciò non erano richieste particolari abilità comunicative; l’intervento era rapido e laddove non era possibile giungere a una guarigione le responsabilità venivano attribuite a Dio o al destino. Oggi l’aumento delle cronicità obbliga i medici a occuparsi di patologie prolungate, debilitanti, incurabili e che influiscono sulla quotidianità dei pazienti[4].
In passato il medico era circondato da un’aura di autorevolezza e gli si dava fiducia incondizionata. Oggi la clinica medica è diventata una scienza che non sempre offre conclusioni sicure; spesso, infatti, una nuova risposta apre la strada a nuove domande. Peggiorano la situazione i mezzi di comunicazione moderni, in particolare internet, che offrendo troppe informazioni (spesso in contraddizione tra di loro) non fanno che aggiungere confusione, incertezza e sfiducia.
Anche i pazienti hanno le loro colpe e sono criticati dai professionisti che li percepiscono come prepotenti, aggressivi, saccenti, e che ritengono non contribuiscano alla costruzione di un’alleanza terapeutica[5].
È evidente che la distanza tra medico e paziente aumenta sempre di più e che si è ormai incrinata la fiducia che sta alla base di un’efficace relazione di cura. La situazione è complessa e gli attori in gioco si accusano vicendevolmente di inadeguatezza e scarsa disponibilità[6]. Fino a prova contraria la relazione è fatta almeno di due protagonisti e le colpe stanno sempre da ambo le parti. Da un lato la medicina moderna e le frustrazioni dei professionisti, dall’altro pazienti sempre più complessi: due realtà che ancora non hanno trovato il modo di comunicare. Come uscire da questa impasse? Non sarà sicuramente il paziente, convinto che la salute sia un diritto dovuto, a fare il primo passo: «Spetta ovviamente allo specialista il compito di trasformare l’interazione con il paziente da disfunzionale a funzionale»[7] nonostante la sensazione che si tratti di una battaglia persa.
Ma come fare?
Invece di difendersi dalla relazione complicata con i pazienti con rabbia e insofferenza, è più utile andare alla ricerca di tutti quegli atteggiamenti e comportamenti che possono riportare la relazione a una dimensione di cooperazione e non più di contrapposizione.
Da dove cominciare per risolvere una situazione così complessa? Se osserviamo la relazione in quanto tale, possiamo dire che alla base di questa ci sia la comunicazione, che nel caso della relazione terapeutica è soprattutto una comunicazione di tipo verbale. Già Ippocrate, padre della medicina occidentale, aveva compreso chiaramente quanto fosse potente il dialogo nel percorso di cura, tanto da rivolgersi agli insegnamenti dello zio Gorgia, famoso retore, per sfruttare tutte le tecniche comunicative utili per convincere i suoi pazienti ad affidarsi alle cure mediche.
Lo sapeva molto bene anche Socrate, quando si avvicinò al giovane Carmide proponendosi di aiutarlo a curare il suo forte mal di testa grazie a un phàrmakon, composto da un’erba e da un incantesimo. Può suonare molto fantasioso e lontano dalla realtà l’utilizzo di una formula magica per guarire un malanno; ma se scaviamo oltre la superficie scopriamo che questo incantesimo, in grado di esercitare una forza di guarigione al pari di una vera e propria magia, altro non è che il discorso retorico con cui il medico dà ragione della cura che propone[8]. Il dialogo, dunque, appare come la chiave di volta della terapia stessa.
Si tratta di una vera e propria impostazione terapeutica, molto chiara anche a Platone, il quale la illustra brillantemente descrivendo le caratteristiche del modo di lavorare di quelli che lui definisce “medico schiavo” e “medico libero”. Il medico schiavo prescrive la cura ai suoi pazienti con «l’alterigia di un tiranno» e «non fornisce né riceve indicazione alcuna sulla patologia specifica» dei suoi pazienti[9]. Completamente diverso è l’atteggiamento del medico libero, che cura «facendone partecipi e il malato ˂stesso˃ e i ˂suoi˃ parenti, a un tempo e apprende qualcosa lui dai malati e, per quanto possibile, insegna al malato stesso e non ˂gli˃ fornisce alcuna prescrizione prima di averlo convinto ˂della sua opportunità˃: solo allora, tranquillizzandolo con la persuasione e con una preparazione costante, cerca di procurargli la salute perfetta»[10]. Ne nasce una vera e propria alleanza terapeutica, che trova il suo fondamento nella relazione tra due persone e che è già di per sé strumento di cura[11]. Ciò che Platone propone assomiglia molto alla proposta di Slow Medicine: «Si parla di comunicazione cooperativa, o di ascolto attivo, per indicare una diversa modalità di scambio fra il professionista sanitario e il paziente: una modalità il cui obiettivo risponde davvero al patto comunicativo (…) e in cui cioè ciascuno dei due coopera attivamente con l’altro per migliorare la reciproca comprensione e individuare un obiettivo condivisibile e desiderabile per entrambi»[12]. Anche Jaspers, rifacendosi proprio a Platone, scrive che «il medico è l’esperto che mette a disposizione del paziente il proprio sapere e la propria abilità, sia sotto forma di azione che, al contempo, di insegnamento»[13].
Il medico libero, insomma, instaura un rapporto di collaborazione e dialogo aperto allo scambio delle informazioni, concorda le procedure terapeutiche in modo chiaro e insegna la cura: non sono forse questi i cardini dei moderni consenso informato e compliance[14]?
Il professionista, quindi, deve assumere i panni del «persuasore strategico»[15] e per farlo dovrà non solo trovare il linguaggio più adatto per ogni paziente, capendo innanzitutto la quantità di informazioni che egli può ricevere, ma dovrà anche saper calcolare il momento giusto in cui fornirle[16] e quali parole usare per farsi comprendere anche da chi non è un esperto.
Per poter essere un buon persuasore, il medico deve essere prima di tutto un buon ascoltatore. I pazienti narrano le loro storie, raccontano le loro malattie con parole che spesso non appartengono al gergo medico e che per questo vanno ascoltate con maggior attenzione ed essere tradotte in una diagnosi corretta. L’ascolto non è un semplice, neutro e magari rassegnato stare a sentire gli sfoghi altrui, ma è un’arte complessa, un atto terapeutico essenziale[17]. Non è solo una gentile concessione, un favore fatto al paziente, ma una vera e propria necessità, spesso sottovalutata, per formulare una diagnosi accurata[18].
Quando il paziente narra la sua malattia spesso inserisce nel racconto elementi che non vengono ritenuti rilevanti per l’anamnesi e per questo viene spesso interrotto (in genere la prima interruzione arriva dopo 17-23 secondi dal momento in cui egli ha iniziato a parlare[19]); questo comporta una narrazione incompleta, frammentaria e magari distorta, e spesso si perde l’occasione di raccogliere dati importanti per comprendere una malattia o prescrivere una terapia[20].
È fondamentale tenere a mente che l’ascolto del paziente è sempre anche un apprendere, una vera e propria esplorazione del sistema dell’altro; una ricerca che avanza ponendo domande pertinenti e mirate, che possano far sentire il paziente riconosciuto nella sua identità di persona[21] e non solo di “portatore di patologia”.
Di fronte a una proposta di relazione fondata sulla rivalutazione del colloquio col paziente, generalmente la prima obiezione che viene mossa dai professionisti è quella relativa al fattore tempo. Incredibile è il fatto che anche ai tempi di Platone i medici schiavi ritenessero una perdita di tempo l’attenzione che i medici liberi dedicavano al dialogo e alla formazione del paziente[22]. A questo proposito è estremamente interessante la proposta di Giorgio Bert e della sua Slow Medicine; Bert si chiede: è davvero necessario un tempo più lungo da dedicare alla visita medica per nutrire la relazione medico-paziente? È il fattore tempo a definire la qualità di un colloquio medico? Secondo la Slow Medicine la risorsa del tempo andrebbe utilizzata in modo più sobrio, ovvero più efficace[23]: non serve più tempo, ma serve tempo di miglior qualità. Dal momento che il tempo a disposizione è sempre poco, la soluzione non è “allungare” il tempo (ossia dedicare più minuti al colloquio), ma “dilatarlo”. Tutti noi abbiamo esperienza del fatto che la percezione del tempo è relativa (possiamo, cioè, percepirlo più veloce o più lento); siamo noi a dare qualità al tempo che viviamo. Vale anche per il colloquio medico: è possibile ridargli qualità, dilatarlo e renderlo più ricco. Cinque minuti spesi con la massima attenzione e concentrazione valgono più di quindici minuti di ascolto distratto e distaccato. Non solo: un paziente soddisfatto dalla prima visita non necessiterà di un ulteriore colloquio e richiederà quindi meno tempo per la terapia.
Se interroghiamo i medici che si ritengono soddisfatti e appagati dal proprio lavoro (lontani da episodi di stress o depressione), scopriremo come per questi sia fondamentale la creazione di una relazione ottimale con i pazienti, passando da un’ampia varietà di aspetti legati proprio alla comunicazione[24]. Ecco perché rifondare su nuove basi la relazione non ha come obiettivo solo la cura del paziente, ma anche quella del medico stesso. «Il recupero della “terapeuticità” della relazione medico-paziente» infatti «costituisce uno degli antidoti più importanti della sindrome da burnout»[25]. Una buona comunicazione e una buona relazione sono strategie di cura non solo per il malessere dei pazienti, ma anche per quello dei medici, che grazie alla narrazione condivisa possono imparare a governare il disagio psicologico dovuto allo stress emotivo[26].
Ma in che modo la relazione può curare anche il medico?[27]
Migliorare le capacità comunicative permette di comprendere meglio il paziente, formulare diagnosi più precise e proporre terapie più efficaci: tutto questo non può che far sentire il medico più abile, capace e quindi soddisfatto.
La buona relazione, quindi, dà una gratificazione immediata e una sensazione di efficacia che può ridare senso alla professione medica.
Comunicare efficacemente significa ridurre le estenuanti discussioni e i momenti di scontro con il paziente; cala così il senso di fatica, di frustrazione e di irritazione provate a causa delle incomprensioni. Le parole dell’altro sono un dono, un continuo arricchimento, un’inesauribile fonte di esperienza e quindi di sapere.
Come abbiamo detto prima, inoltre, il dialogo efficace rende i pazienti più sereni, tranquilli, soddisfatti e quindi meno assillanti, e nel lungo periodo più sani.
In definitiva «comunicare efficacemente significa restituire al medico il potere di curare, che non è solo guarire e sanare, ma anche assistere, provvedere, occuparsi, accudire»[28] non eslusivamente i pazienti, ma anche se stesso.
[1] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.1.4
[2] I. Illich, Nemesi medica, Mondadori, Milano, 1977
[3] G. Bert, Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Pensiero scientifico editore, edizione digitale novembre 2015, capitolo Istruzioni per l’uso
[4] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.1.3
[5] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.1.3
[6] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.2
[7] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.2
[8] Platone, Fedone, introduzione e note di A. LAMI e traduzione di P. Fabrini, nota 81, p. 200
[9] Platone, Leggi, IV 720c3-8, traduzione di L. Napolitano Valditara
[10] Platone, Leggi, IV 720 b1-e2, traduzione di L. Napolitano Valditara
[11] E. Vaccher, Il medico e la narrazione, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2011, p. 80
[12] G. Bert, A. Giardini, S. Quadrino, Slow Medicine, Sperling & Kupfer, edizione digitale, capitolo Comunicazione Slow. Se anche la comunicazione diventa sobria, rispettosa e giusta
[13] K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991
[14] L. Napolitano Valditara, ‘Compliance’ medico-paziente e consenso informato: l’arte del medico libero da 2000 anni, 2008, on-line sul Sito Web della Società Italiana di Endoscopia Chirurgica: http//www.SIECH.org. Della stessa autrice confronta anche Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit, Verona, 2011
[15] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo Presentazione
[16] E. Vaccher, Il medico e la narrazione, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2011, p. 78
[17] N. Suter, Il valore delle narrazioni e l’ascolto come terapia. Il progetto del CRO, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2011, p. 52-53
[18] G. Bert, A. Giardini, S. Quadrino, Slow Medicine, Sperling & Kupfer, edizione digitale, capitolo Comunicazione Slow. Se anche la comunicazione diventa sobria, rispettosa e giusta
[19] E. Moja, E. Vegni, La visita medica centrata sul paziente, Raffaello Cortina, Milano, 2000
[20] G. Bert, Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Pensiero scientifico editore, edizione digitale novembre 2015, capitolo Narrazione e medicina narrativa
[21] M. Doglio, Consuelling e competenze narrative come strumenti per il riconoscimento nella relazione di cura, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2013, p. 26
[22] Cercare note napolitaono pagina 47
[23] G. Bert, A. Giardini, S. Quadrino, Slow Medicine, Sperling & Kupfer, edizione digitale, capitolo Slow medicine. Un’alleanza per una buona sanità.
[24] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.3
[25] E. Vaccher, Il medico e la narrazione, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2011, p. 82
[26] L. Napolitano Valditara, Narrazione e filosofia: quanto la Medicina Narrativa aiuta il paziente e il curante?, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del convegno, CROinforma, Aviano 2011, p. 52. Su questo tema fondamentale è il contributo di Marie De Hennezel che descrive il suo lavoro nell’ambito delle cure palliative nel libro La morte amica. Le lezioni di vita di chi si avvicina alla fine, Rizzoli, Milano, 1998
[27] Su questo tema si rimanda a R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.3
[28] R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola, Adriano Salani Editore, edizione digitale 2015, capitolo 11.3
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