Un virus provoca la demenza?

4 Giugno 2025 di Roberta Villa

Da molti anni esiste il sospetto che alcune infezioni virali o batteriche possano contribuire allo sviluppo della malattia di Alzheimer o di altre forme di demenza [1,2,3]. Ultimamente questa ipotesi è stata avvalorata da vari studi che hanno puntato il dito soprattutto contro i virus dell’herpes simplex e dell’herpes zoster.

Ciò non significa però in alcun modo che le demenze possano essere contagiose o che tutti coloro che hanno avuto queste comuni infezioni andranno incontro con l’età a un importante declino cognitivo. Il contatto con l’agente infettivo potrebbe solo contribuire in qualche modo ancora poco chiaro alla genesi complessa di queste malattie neurodegenerative, eventualmente insieme ad altri fattori predisponenti di tipo genetico o ambientale, anche relativi allo stile di vita [4,5].

Dottore, ma di quali virus si parla?

I virus chiamati maggiormente in causa per la demenza sono l’herpes simplex e l’herpes zoster. L’herpes simplex è quello che chiamiamo “herpes” anche nel linguaggio comune:

  • il tipo 1 è responsabile di stomatiti e poi della ricorrente “febbre” che compare per lo più sulle labbra (ma può colpire anche altre parti del viso);
  • il tipo 2 si associa invece a dolorose vescicole che si formano a livello dei genitali.

L’herpes zoster, da parte sua, quando viene a contatto per la prima volta con l’organismo provoca la varicella, ma poi può restare all’interno delle fibre nervose e manifestarsi anche a distanza di molti anni con il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio” [6].

Sebbene questi siano i sospettati numero uno, anche altri virus e batteri potrebbero favorire in qualche modo una graduale degenerazione del tessuto cerebrale, soprattutto quando sono responsabili di infezioni sistemiche gravi. Da due banche dati, rispettivamente finlandese e britannica, che insieme riguardavano 800.000 persone, è emerso infatti un maggior rischio di demenza nelle persone che nel corso della loro vita avevano subito un ricovero anche per altre malattie virali. Secondo lo studio, le encefaliti virali si associavano a un rischio di Alzheimer di oltre trenta volte maggiore, ma le probabilità di demenza in generale erano aumentate in misura minore anche quando si registravano altre infezioni, come gravi forme di influenza [7].

Più recentemente, in Nuova Zelanda, su più di 1,7 milioni di persone seguite per decenni, in chi aveva indicato in cartella clinica un ricovero per infezione è stato trovato anche a distanza di trent’anni un rischio triplo di demenza rispetto agli altri [8].

Dottore, quali sono le prove di questo legame?

Anche i sospetti di un legame tra infezioni da herpes virus e demenze provengono da ricerche condotte su grandi database. Questi, infatti, permettono di verificare facilmente se oltre alla registrazione di una diagnosi di demenza è segnalata o meno anche una precedente infezione.

Un recente studio ha per esempio messo a confronto i fascicoli sanitari di quasi 20.000 cittadini statunitensi che riportavano un’infezione da herpes simplex con quelli di oltre 96.000 di controllo che non risultava avessero mai contratto il virus. Tra i primi, indipendentemente dal tipo di herpes virus contratto, il rischio di demenza era significativamente maggiore rispetto a quello di chi non lo aveva mai incontrato [9]. Non è ancora una prova definitiva, ma un indizio importante.

Dottore, ma un vaccino potrà proteggere dall’Alzheimer?

Più significativo ancora è lo studio che ha colto l’occasione di confrontare due gruppi omogenei, la cui unica differenza era la protezione contro herpes zoster, realizzando una sorta di “esperimento naturale”. In Galles, infatti, il vaccino contro il Fuoco di Sant’Antonio fu offerto gratuitamente alle persone che compivano 80 anni a partire dal primo settembre 2013, e poi via via a chi raggiungeva quella soglia nei mesi successivi. Il gruppo di controllo per lo più non vaccinato era quindi facilmente identificabile tramite la data di nascita. Essere nato anche solo una settimana dopo il primo settembre 1933 aumentava al 43% la probabilità di essere vaccinato rispetto allo 0,01% di chi solo era nato un mese prima. A parte questo, non c’erano tra i due gruppi altre differenze come livello socioeconomico, titolo di studio, professione o stili di vita, che potessero confondere l’analisi.

Nei sette anni successivi, si è visto che le persone vaccinate avevano un rischio inferiore del 20% di ricevere una diagnosi di demenza rispetto a chi non aveva ricevuto il vaccino [10]. Questo lavoro fa riferimento all’unico vaccino allora disponibile, quello a virus vivo e attenuato chiamato Zostavax, ma un altro più recente, basato sui dati sanitari di 200.000 americani, conferma con lo stesso metodo che anche il nuovo vaccino ricombinante, Shingrix, presenta lo stesso effetto protettivo [11].

Questi prodotti, nati per proteggere dal Fuoco di Sant’Antonio, potrebbero quindi un domani ottenere un’indicazione in più, forse non come una vera e propria vaccinazione contro la demenza, ma come uno strumento per ridurne il rischio.

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Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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