Se sospetto un infarto, andando in ospedale mi prendo la Covid-19?

12 Giugno 2020 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

In seguito all’esplosione della pandemia di Covid-19 molti ospedali sono stati convertiti a centri Covid, interamente dedicati alla gestione dei pazienti positivi al virus SARS-CoV-2. Di fronte a questa esigenza alcuni Sistemi Sanitari Regionali hanno dovuto riorganizzare la propria rete ospedaliera per poter continuare a garantire un certo grado di assistenza ordinaria, specie per quanto riguarda le patologie, come l’infarto, in cui un intervento tempestivo può fare la differenza tra la vita e la morte.

Da subito, però, i cardiologi si sono trovati di fronte a un problema inaspettato: il numero di accessi per eventi cardiovascolari acuti è crollato. “Nelle ultime due settimane si sta assistendo a una riduzione drastica dei ricoveri per infarto”, sottolineava già l’11 marzo Gianfranco Marenzi, Direttore dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica dell’Irccs Centro Cardiologico Monzino di Milano [1].

Anche uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, che prendeva in considerazione i dati della Regione Lombardia, ha sottolineato il problema. Rispetto all’anno precedente, nel 2020 si è registrato un aumento significativo di arresti cardiaci extraospedalieri (quindi avvenuti fuori dall’ospedale) e il tempo necessario all’arrivo dell’ambulanza è risultato di 3 minuti più lungo nel 2020. Di pari passo è aumentato il numero dei decessi per infarto: tra i pazienti sottoposti alla procedura di rianimazione da parte del personale medico dell’ambulanza il tasso di decessi è risultato del 14,9% più elevato nel 2020 rispetto al 2019 [2].

Cosa dicono le società scientifiche?

Nonostante negli ultimi giorni i numeri dei casi positivi stiano diminuendo, la situazione degli accessi in ospedale non sembra cambiare. Il 9 maggio la Società Italiana di Cardiologia (SIC) ha diramato un comunicato stampa in cui si legge che “l’attenzione della sanità su Covid-19 e la paura del contagio rischiano di vanificare i risultati ottenuti in Italia con le terapie più innovative per l’infarto e gli sforzi per la prevenzione degli ultimi 20 anni. […] Per timore del contagio i pazienti ritardano l’accesso al Pronto Soccorso e arrivano in ospedale tardi e in condizioni sempre più gravi” [3]. Lo studio svolto dalla SIC è stato condotto in 54 ospedali, per valutare i pazienti acuti ricoverati nelle Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC), nella settimana dal 12 al 19 marzo, confrontandola con quella dello stesso periodo dello scorso anno. “Il nostro studio, durante il periodo Covid, ha registrato una mortalità tre volte maggiore rispetto allo stesso periodo del 2019, passando al 13,7% dal 4,1 %”, afferma Carmen Spaccarotella, autrice dello studio. “Un aumento dovuto nella maggior parte dei casi a un infarto non trattato o trattato tardivamente” [3].
Nonostante la pandemia Covid-19 si sia concentrata nel Nord Italia, la riduzione dei ricoveri per infarto è stata registrata in modo omogeneo in tutto il Paese: del 52,1% a Nord e a Sud e del 59,3% al Centro. “Questo dato ci colpisce perché mentre al Nord era logico attendersi una riduzione dei ricoveri, al Sud, dove la percentuale dei contagi è stata significativamente più bassa, la paura di accedere ai servizi sanitari risulta meno coerente in quanto i letti erano disponibili e rimasti non utilizzati” si legge sul comunicato della SIC [3].
Anche la Società italiana di Cardiologia Interventistica (SICI-GISE) ha segnalato un dimezzamento degli accessi in Pronto Soccorso per infarto del miocardio, che sembrerebbe aver causato un aumento dei decessi. “L’infarto è un evento altamente tempo-dipendente” avverte Giuseppe Tarantini, presidente SICI-GISE “e più si indugia, maggiore è la compromissione del muscolo cardiaco. Ogni minuto è prezioso: per ogni 10 minuti di ritardo nella diagnosi e nel trattamento, la mortalità aumenta del 3%. All’insorgenza dei primi sintomi – i più frequenti sono dolore al petto, spesso esteso al braccio sinistro e poi nausea, vomito, sudorazione fredda – bisogna chiamare immediatamente il 118. Sarà poi cura degli operatori rilevare il percorso idoneo” [4].

Dottore, negli ospedali sono stati realizzati dei percorsi per cardiopatici?

Certo, in tutta Italia sono stati attivati percorsi di cura alternativi che possano garantire l’intervento in sicurezza per pazienti e operatori sanitari. “Secondo i dati Istat, ogni giorno nel nostro Paese muoiono di malattie del sistema cardiocircolatorio 638 persone” spiega Giuseppe Tarantini, presidente SICI-GISE “nell’era Covid-19 abbiamo provveduto a creare percorsi differenziati tra i pazienti e realizziamo una gestione rapida dell’emergenza cardiovascolare, garantendo al massimo la cura dell’infarto” [4].
Tanti sono anche i racconti di medici e infermieri, che spiegano come si sono riorganizzati gli ospedali durante la pandemia di Covid-19 per garantire la massima sicurezza ai pazienti. Tra loro Michele Senni, direttore dell’Unità Operativa di Cardiologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, diventato un modello di riferimento per la gestione dell’emergenza legata al nuovo coronavirus. “Abbiamo creato, per far fronte alle emergenze cardiologiche, un fast track, per cui il paziente arriva direttamente al Reparto di Emodinamica, dove svolgiamo tutti gli esami, senza passare per il Pronto Soccorso” [5]. A confermare l’adozione di percorsi alternativi è anche Luigi Oltrona Visconti, direttore della Struttura Complessa di Cardiologia presso il Policlinico San Matteo di Pavia. Ha spiegato, infatti, che sin dai primi giorni dell’emergenza Covid-19 si è riunita con cadenza quotidiana un’unità di crisi composta da clinici, personale tecnico-amministrativo e dalle direzioni sanitaria, generale e amministrativa, che ha permesso di rispondere con efficienza all’epidemia, mettendo in piedi percorsi e protocolli mirati utili a salvaguardare pazienti e operatori sanitari [6].

Dottore, cosa si rischia a non andare in ospedale?

Nel caso di patologie come l’infarto, chiamate “tempo-dipendenti”, ogni minuto di ritardo può essere determinante. Purtroppo, invece, in questo periodo alcuni pazienti arrivano in ospedale anche tre o cinque giorni dopo la comparsa dei sintomi. “Stiamo assistendo a quello che si vedeva negli anni Sessanta, quando non c’erano ancora le cure che abbiamo oggi e le terapie intensive così diffuse”, racconta Gianfranco Parati, cardiologo. “Vediamo pazienti che arrivano con il cuore che si è spezzato, con un danno tale da non essere più recuperabile” [7].
Che la velocità di trattamento sia fondamentale quando si ha un infarto non è una novità dell’era Covid-19. Da sempre, infatti, studi condotti in diversi paesi del mondo hanno mostrato una relazione tra il trattamento precoce e i miglioramenti nella sopravvivenza a breve termine. Al contrario, arrivare in ritardo in ospedale è un fattore critico nel determinare la strategia di cura e gli esiti del trattamento [8,9,10]. Per questo, se si teme di avere un infarto, bisogna recarsi immediatamente in ospedale.
Dunque, può essere utile chiarire quali sono i sintomi tipici di un infarto, da non sottovalutare. Quando si ha un infarto i sintomi più frequenti sono [11]:

  1. Fastidio o dolore al petto. La maggior parte degli attacchi di cuore comporta un dolore al centro del torace che dura più di qualche minuto, oppure può andare via e poi ritornare. In alcuni casi può semplicemente sembrare di sentire una spiacevole pressione sul petto.
  2. Fastidio o dolore in altre aree della parte superiore del corpo, in una o entrambe le braccia, la schiena, il collo, la mascella o lo stomaco.
  3. Fiato corto, che può verificarsi con o senza fastidio al torace.
  4. Altri segnali possono essere scoppi di sudore freddo, nausea o vertigini.

Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
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