Sì, una donna con HIV in terapia antiretrovirale e con una carica virale negativa può avere un bambino sieronegativo, ovvero può non trasmettere l’HIV al feto. “La formula U=U, secondo cui se la carica virale non è rilevabile il virus non si trasmette, si mantiene valida anche in questo caso. Quindi le donne in gravidanza, in terapia antiretrovirale e viremia negativa non trasmettono infezione al piccolo”, conferma a Dottore ma è vero che Massimo Cernuschi, infettivologo e presidente di ASA Onlus (Associazione Solidarietà Aids) e Milano Checkpoint. Come abbiamo spiegato nella scheda dedicata a U=U, infatti, seguire correttamente la terapia combinata in modo da mantenere la propria carica virale non rilevabile permette di azzerare il rischio di contagiare gli altri, oltre che di vivere una vita perfettamente normale.
Diversi studi confermano che una madre che è in terapia e con carica virale negativa al momento del concepimento non trasmette il virus dell’HIV al bambino. Uno dei più recenti e più ampi è del 2015 e ha preso in esame oltre 8.000 coppie madre sieropositiva/neonato [1]. Nella ricerca il tasso di trasmissione perinatale è stato dello 0,7% (56 infezioni su 8.075 gravidanze arrivate a termine). Nessuna infezione si è verificata quando la madre era in terapia già prima del concepimento e ha continuato la terapia per tutto il periodo della gravidanza, mentre il rischio di infezione è andato aumentando progressivamente quando la terapia è cominciata nel primo, secondo o terzo trimestre.
Dottore, cosa accade se invece la madre non è in terapia antiretrovirale o se ha una carica virale rilevabile?
Se la madre non è in terapia antiretrovirale, in teoria può trasmettere il virus al bambino attraverso la placenta durante il periodo della gravidanza, ma soprattutto durante il parto o l’allattamento. In assenza di una terapia antiretrovirale, il rischio di trasmissione varia tra il 15 e il 30% durante la gravidanza e il parto, con un rischio addizionale del 10-20% associato a un periodo di allattamento prolungato [2].
Tuttavia in Italia – come in molti altri Paesi – quando una donna resta incinta le vengono offerti una serie di test, incluso quello dell’HIV. Cosicché, se non è consapevole della sua sieropositività prima del concepimento e quindi non è ancora in terapia, può cominciare il trattamento il prima possibile. L’assunzione corretta e continua della terapia antiretrovirale, oltre a essere fondamentale per la salute della donna sieropositiva, diminuisce significativamente il rischio di trasmissione materno-fetale.
“In Italia le donne che partoriscono bambini con HIV sono per lo più donne che non sono coscienti delle possibilità che hanno di essere seguite. Sono spesso donne immigrate, dall’Est Europa o dall’Africa, ignare del fatto che anche se non hanno un permesso di soggiorno ogni cura collegata alla gravidanza è assolutamente gratuita e a loro disposizione”, prosegue Cernuschi. “Quindi non fanno il test, non si presentano in ospedale, non vanno dal ginecologo finché non devono partorire. Purtroppo a quel punto, se loro sono sieropositive e non in terapia, il rischio di trasmettere l’HIV al bambino esiste e il neonato deve cominciare la terapia ed essere monitorato per qualche settimana per capire se ha acquisito l’infezione”.
Se è il futuro padre a essere sieropositivo?
Se il padre è sieropositivo, in terapia e con carica virale negativa, non può trasmettere il virus alla madre e quindi al bambino. Se è sieropositivo e con carica virale positiva, al contrario, può trasmetterlo. In questo caso, per prima cosa l’uomo dovrebbe cominciare immediatamente la terapia antiretrovirale, innanzi tutto per la sua salute, e poi si dovrebbe aspettare che la carica virale si negativizzi, cosa che dovrebbe succedere pochi mesi dopo l’inizio del trattamento.
È possibile trasmettere il virus con l’allattamento?
Sì. Prima dell’arrivo degli attuali farmaci antiretrovirali il rischio di trasmissione materno-infantile durante l’allattamento era di circa il 15%. La percentuale resta questa nelle situazioni in cui le terapie non sono disponibili. Quando invece la madre è in terapia antiretrovirale e con carica virale negativa questo rischio sembra ridursi all’1-5% [3].
Tuttavia poiché è un rischio ancora esistente molte società scientifiche – tra cui l’American Pediatric Association – raccomandano nei Paesi ad alto reddito, dove c’è accesso ad acqua pulita e ad alternative sicure al latte materno, che le donne sieropositive non allattino al seno.
Nei Paesi in cui queste condizioni non sono possibili, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandano l’allattamento al seno quale esclusiva forma di alimentazione del bambino per almeno i primi dodici mesi di vita quando la madre è in terapia e con carica virale non rilevabile [4]. In questo caso infatti i benefici dell’allattamento al seno per la sopravvivenza del bambino superano di gran lunga il rischio di contrarre l’HIV.
In realtà oggi la questione dell’allattamento al seno è molto controversa, a fronte di un numero sempre maggiore di donne in terapia e con carica virale non rilevabile che, nei Paesi industrializzati, esprimono il desiderio di allattare al seno per i benefici che questo porta alla salute del bambino e a fronte di alcuni recenti studi che mostrano effettivamente un rischio molto basso di trasmissione.
Lo studio PROMISE [5], per esempio, condotto in Africa e India, ha esaminato il rischio di trasmissione materno-infantile durante l’allattamento in 2.431 donne sieropositive. Secondo i risultati, tra le 1.219 donne che ricevevano il trattamento, sette avevano bambini che avevano contratto l’HIV entro 12 mesi (per un tasso di trasmissione dell’HIV dello 0,57%). Solo due di questi casi erano tra donne che avevano una carica virale non rilevabile.
Altri studi hanno riportato simili risultati ma ancora oggi non vi è un consenso. In molti Paesi tra cui l’Italia [6], il Canada [7] e gli Stati Uniti [8] l’allattamento al seno è sconsigliato in questo caso, vista l’esistenza di un’alternativa sicura, che non compromette la salute del bambino e che permette di integrare in altro modo i benefici che quest’ultimo avrebbe attraverso l’allattamento al seno.
Nel Regno Unito, l’Imperial College Healthcare NHS Trust ha messo a punto delle raccomandazioni molto dettagliate per quelle donne che scelgono comunque di allattare al seno [9]. Nella brochure, che rappresenta un ottimo punto di partenza per informarsi in merito a questa scelta, insieme a un consulto con il proprio infettivologo, queste sono le indicazioni principali:
- Essere certi che la propria carica virale sia irrilevabile per tutto il tempo dell’allattamento.
- Smettere l’allattamento al seno se madre o bambino hanno diarrea o sintomi gastrointestinali: irritazioni intestinali possono interferire con l’assorbimento dei farmaci da parte della madre e aumentare il rischio per il bambino.
- Allattare solo se il seno è sano e smettere se i capezzoli sono screpolati, sanguinanti, se si presentano mughetto o mastite.
Dottore, quindi come mi comporto?
“Alla fine, il dato più evidente, è che chi intende avere un bambino – uomo o donna che sia – deve sottoporsi al test. È fondamentale. E in caso di risultato positivo deve iniziare prima possibile la terapia” conclude Cernuschi.