11 Febbraio 2020 di Ulrike Schmidleithner

Rischio individuale versus rischio collettivo

In questi giorni il nuovo coronavirus (2019-nCoV), che è riuscito a fare il salto di specie (da virus animale si è adattato all’uomo come prima di lui hanno fatto innumerevoli altri virus), è sulla bocca di tutti. Per fortuna nella maggior parte dei casi solo per modo di dire.
Possiamo trovare valanghe di commenti, affermazioni, spiegazioni e, come succede di solito quando appare una minaccia, nascono come funghi le dicerie. Oggi non ho intenzione di parlare di questo, ma del rischio che corriamo come singolo e come collettività.

C’è per esempio chi tranquillizza, calcolando con delle proiezioni un tasso di letalità molto basso, facendo un paragone con l’influenza che in queste occasioni viene di solito chiamata “banale” (quando in realtà non ha niente di banale, e causa ogni anno nella sola Italia migliaia di morti). Anche la SARS, l’ebola o il morbillo vengono spesso tirati in ballo.

Il realtà non si conosce ancora la letalità del nuovo coronavirus perché al momento nessuno è in grado di sapere quante persone siano state realmente infettate. Molte presentano sintomi lievi o sono addirittura asintomatiche, e quindi sfuggono alle statistiche. Al momento il rischio di morire dopo aver contratto il virus appare basso.

Alcuni hanno chiesto: “Allora perché c’è tutto questo allarme, e perché si prendono misure drastiche come il blocco dei voli, dei treni e di altri mezzi pubblici, o la quarantena di decine di milioni di persone che è stata attuata in Cina, nell’epicentro dell’epidemia?”.

La risposta è che quando un numero enorme di persone viene infettato da un virus o da un batterio, anche una letalità relativamente bassa produce comunque un grande numero di morti.

Se, per esempio, in un focolaio causato da un virus che uccide lo 0,1% dei malati fossero coinvolte 1.000 persone, si avrebbe un solo morto, mentre 999 persone potrebbero raccontare di quanto fosse “banale” la malattia. Quell’unica vittima invece non potrebbe più raccontare niente. Questo ragionamento è anche responsabile dell’erronea opinione di molte persone che il morbillo sia una malattia da niente.

Se però quel virus infettasse 60 milioni di persone, ci sarebbero 60.000 funerali. E stiamo parlando di un numero corrispondente, a grandi linee, alla popolazione della sola Italia: se il virus diventasse pandemico (cioè se invadesse vari continenti o addirittura il mondo intero), anche con una bassa letalità produrrebbe un numero enorme di vittime.

Da non dimenticare: ai casi di morte vanno aggiunti anche i contagi non mortali, i quali comunque causano gravi complicanze che necessitano di sofisticate cure.

Per questo motivo le autorità sanitarie sono molto preoccupate, e cercano in tutti i modi di ridurre il contagio e di fare terra bruciata intorno ai virus. Il compito degli esperti di salute pubblica è infatti di proteggere tutta la popolazione, inclusi naturalmente i soggetti a maggiore rischio. Vi immaginate se prendessero le proprie decisioni basandosi solo sulle necessità dei cittadini sani e forti?

Anche tutti noi abbiamo la nostra fetta di responsabilità verso la società e verso il prossimo che potrebbe far parte del gruppo di persone meno fortunate, cioè chi presenta dei fattori di rischio per una determinata malattia infettiva. Persone con condizioni mediche che, in caso di contagio, le renderebbero più vulnerabili allo sviluppo di gravi complicanze, o addirittura potrebbero causarne la morte. Non dimentichiamo che nessuno di noi può essere sicuro al 100% di non fare parte oggi o domani di un gruppo a rischio, e nessuno è in grado di prevedere se e quando potrebbe avere un contatto con queste persone e veicolare involontariamente dei virus, come per esempio quelli dell’influenza o del morbillo (o del coronavirus, se malauguratamente dovesse diffondersi anche da noi).

Penso che sia importante conoscere la differenza tra rischio personale – che potrebbe anche essere così basso da non giustificare alcuna reazione di panico – e rischio collettivo.

Se noi o i nostri cari presentassimo dei fattori di rischio, non ci aspetteremmo che quelli con cui veniamo a contatto facciano di tutto per evitare di trasmetterci una malattia infettiva?

Quindi, quando sentiamo paragonare il tasso di letalità del nuovo coronavirus (tasso ancora sconosciuto con certezza) a una serie di altre malattie infettive effettivamente più pericolose per il singolo individuo, non dimentichiamo che non esiste solo il rischio personale, ma anche uno che riguarda l’intera comunità.

Seguiamo quindi le raccomandazioni degli esperti (il calendario vaccinale, le buone regole di igiene – come il frequente lavaggio delle mani, il consiglio di tossire o starnutire in un fazzoletto o nel gomito flesso e buttare il fazzoletto subito dopo nella spazzatura, lavandosi poi bene le mani, e di rimanere a casa quando si è malati per non infettare altre persone ecc.). Facciamo la nostra parte e contribuiamo a ridurre il rischio per noi e per gli altri! È molto meglio che lasciarsi sopraffare dal panico, che non solo non è di nessuna utilità, ma anzi può essere dannoso.

Autore Ulrike Schmidleithner

Una mamma che segue dall’inizio del 2002 con grande passione la questione vaccini. In tutti questi anni ha approfondito ogni aspetto di questo tema. Conosce praticamente tutti gli argomenti usati dalle persone contrarie alle vaccinazioni. Ha controllato accuratamente ciascuno di questi assunti e ha scritto moltissimi articoli sul suo blog Vaccinar...SI’! e sulla pagina Facebook omonima, per spiegare in modo pacato e comprensibile anche a chi non ha studiato medicina come stanno realmente le cose secondo il parere della comunità scientifica. Ha sempre fatto controllare i suoi articoli da uno o più esperti per assicurare la correttezza scientifica, che è indispensabile per un tema così importante. Sul nostro sito cura “La rubrica della mamma” in cui si rivolge ai genitori stando al loro fianco.
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