Si può prevenire l’infezione da virus respiratorio sinciziale?

4 Ottobre 2024 di Roberta Villa

Esistono vaccini, farmaci e strategie diverse per prevenire l’infezione da virus respiratorio sinciziale (RSV, Respiratory Sincytial Virus), e ciò talvolta può creare confusione, anche nei titoli dei giornali.

Il virus, che nella maggior parte degli individui provoca al più un banale raffreddore, può provocare malattie molto gravi nelle persone con difese immunitarie meno efficienti per concomitanza di altre patologie e soprattutto per età. Le popolazioni più a rischio sono infatti i neonati prematuri e i bambini sotto i sei mesi di età, gli ultra 65enni e le persone con un sistema immunitario indebolito o con patologie preesistenti.

Tra i bambini piccoli, fino ai due anni, il virus respiratorio sinciziale è la più comune causa di ricovero in ospedale nel mondo e nei primi 6 mesi di vita si parla a livello globale di 1,4 milioni di ricoveri e 27.300 decessi. Nell’Unione Europea, aggiungendo Norvegia e Regno Unito, il virus porta in ospedale circa 213.000 bambini sotto i cinque anni, alcuni dei quali in terapia intensiva.

Tra gli anziani, soprattutto se fragili e con altre condizioni, le stime sono approssimative, ma si attestano, a seconda delle stagioni e della soglia di età considerata, oltre i 100.000 ricoveri e nell’ordine dei 10.000 decessi l’anno negli Stati Uniti e intorno ai 158.000 ricoveri con circa 20.000 decessi in Europa. È a queste due categorie, quindi, bambini piccoli e ultrasessantenni, che si rivolgono gli strumenti di prevenzione approvati negli ultimi anni dalle autorità sanitarie [1,2,3,4].

Dottore, che differenza c’è tra un anticorpo monoclonale e un vaccino?

Quando sentiamo parlare di prevenzione della infezione da virus respiratorio sinciziale ci accorgiamo che gli esperti usano il termine generico di “immunizzazione”. Questa definizione comprende infatti sia la vaccinazione diretta dell’individuo da proteggere, sia la protezione indiretta del nascituro tramite la vaccinazione della madre in gravidanza, sia la somministrazione a scopo preventivo di specifici anticorpi monoclonali.

I vaccini presentano al sistema immunitario un determinato agente infettivo o alcuni suoi tratti caratteristici, perché le difese dell’organismo imparino a riconoscerlo e si preparino a contrastarlo producendo anticorpi specifici nel caso in cui l’individuo vi venga a contatto. Si tratta quindi di un’immunità attiva (perché messa in campo dal sistema immunitario stesso), che richiede un certo tempo (almeno un paio di settimane) per svilupparsi, ma che poi tende a essere duratura (sebbene talvolta richieda dei richiami).

Gli anticorpi monoclonali sono appunto anticorpi, tutti uguali tra loro, realizzati in laboratorio sulla falsariga di quelli più efficaci tra i tanti che vengono prodotti naturalmente dal sistema immunitario in risposta a un’infezione. Diversamente dai vaccini, gli anticorpi monoclonali non stimolano quindi il sistema immunitario, ma rappresentano essi stessi la prima linea di difesa dell’organismo contro l’agente infettivo. Danno quindi un’immunità passiva, immediata, ma che dura per un tempo breve, di solito qualche settimana. Oltre a questi anticorpi monoclonali, ve ne sono molti altri (tutti con il nome che finisce in “ab”, che sta per antibodies in inglese) che svolgono diverse funzioni, contro l’infiammazione, i tumori o altre malattie.

La pratica di vaccinare le donne in gravidanza per proteggere i nascituri (già largamente adottata per il tetano e la pertosse, l’influenza e Covid) sfrutta entrambe queste strategie: il vaccino induce infatti nella madre una risposta immunitaria attiva; questa comporta la produzione di anticorpi che passano al feto attraverso la placenta; il neonato, quindi, risulta protetto passivamente da questi anticorpi materni fino a quando questi non vanno incontro a una naturale degradazione.

Dottore, cosa mi dice degli anticorpi monoclonali per proteggere i bambini?

Prima di tutto è bene ricordare l’importanza delle cosiddette “misure non farmacologiche”, cioè del rispetto delle principali norme igieniche quando si ha a che fare con un neonato o con una persona fragile. Quasi tutte le bambine e i bambini, infatti, vengono a contatto con il virus nei primi due anni di vita, ma prima ciò accade, maggiori sono i rischi che l’infezione provochi polmoniti o bronchioliti così gravi da impedire una buona respirazione, al punto di doverli ricoverare, assistere con l’ossigeno e, nei casi più gravi, intubarli.

Qualche anno fa, per evitare queste conseguenze, avevamo a disposizione un solo anticorpo monoclonale, palivizumab (Synagis), che tuttavia, dopo essere stato iniettato, tendeva a degradarsi rapidamente. Richiedeva quindi iniezioni mensile per tutta la stagione fredda, quella a maggior rischio di contagio, e per questo era riservato ai piccoli nati prematuri o con malattie che li esponevano a maggior rischio in caso di infezione da RSV.

Negli ultimi anni è stato tuttavia messo a punto e autorizzato un nuovo prodotto, nirsevimab (Beyfortus), che ha una maggiore durata di azione, e può quindi proteggere il bambino per tutta la prima stagione invernale che si trova a dover affrontare [5,6]. Gli studi condotti in vari Paesi europei ne hanno confermato l’efficacia nel ridurre i casi di malattia, le forme gravi e i ricoveri ospedalieri, per cui Spagna e Francia, seguiti dalla Germania, hanno già iniziato a offrirlo a tutti i nuovi nati in prossimità dell’autunno [7].

Altri Stati e regioni stanno soppesando costi e benefici di una campagna a tappeto. Chi trarrebbe maggior vantaggio da questo farmaco sarebbero i Paesi a medio e basso reddito, dove si verifica più del 97% dei decessi correlati a questo virus sotto i 5 anni di età. Il prezzo elevato del prodotto e la carenza di forniture impediscono tuttavia loro, per il momento, di accedere a nirsevimab. Per cercare di aggirare questo ostacolo, un editoriale di Lancet Respiratory Medicine suggerisce la validazione e l’adozione di strumenti che consentano di individuare, sulla base di dati facili da raccogliere, i neonati più a rischio, anche tra quelli nati a termine e senza particolari malattie, così da allocare nel modo migliore le risorse [8].

Dottore, esistono anche veri e propri vaccini?

Oltre che con la protezione passiva offerta dall’anticorpo monoclonale, i neonati si possono proteggere da RSV anche attraverso la vaccinazione della madre nelle ultime settimane di gravidanza con il vaccino di Pfizer (ricombinante bivalente) chiamato Abrysvo. La sperimentazione in gravidanza dell’altro vaccino per adulti (ricombinante adiuvato) Arexvy, è stata invece interrotta da GSK per il sospetto che potesse aumentare il rischio di parti prematuri.

Nel mondo scientifico si discute se uno stesso segnale di allarme non sia stato trascurato nel corso della sperimentazione dall’azienda produttrice e dalle autorità regolatorie nell’autorizzare il prodotto di Pfizer. Questo è comunque indicato solo a partire dalla trentaduesima settimana, quando il rischio di conseguenze sul nascituro nel caso di un eventuale parto prima del termine è comunque inferiore ai periodi precedenti [9,10].

Entrambi i vaccini, Arexvy e Abrysvo, sono invece stati approvati per le persone dai 60 anni in su, accertata la loro sicurezza ed efficacia nel ridurre il rischio di infezioni respiratorie acute gravi e ricovero in ospedale dovuti a RSV. Purtroppo il loro effetto tende a calare già nella seconda stagione dalla prima somministrazione, e un richiamo eseguito immediatamente l’anno successivo non sembra in grado di risvegliare le difese. Si sta quindi valutando l’ipotesi di ripetere l’iniezione ogni due anni, ma ancora non ci sono prove solide a supporto di questa idea [11-17].

Si lavora intanto anche a nuovi vaccini, realizzati con tecnologie più innovative: con il nome di mRESVIA è stato recentemente autorizzato per gli ultrasessantenni, sia negli Stati Uniti sia in Europa, quello di Moderna, prodotto con la stessa tecnica dell’RNA messaggero introdotta per rispondere a Covid-19 [18-20].

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Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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