Mangiare la placenta fa bene?

13 Dicembre 2017 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Mangiare la propria placenta non è una buona idea, nonostante alcune “celebrità” non perdano occasione per suggerire questa pratica alle neo mamme. Beninteso, in diversi mammiferi si osserva questa abitudine, ma, sebbene la placenta giochi un ruolo essenziale nello sviluppo del feto, non ci sono evidenze che possa in alcun modo continuare a dare benefici dopo la nascita del bambino.

In quale forma si dovrebbe – o potrebbe – mangiare la placenta?

Almeno in linea teorica, la placenta può essere consumata cruda, cucinata, disidratata o incapsulata oppure integralmente o parzialmente sciolta in bevande frullate. Le pratiche comunemente usate prevedono la sta disidratazione e il successivo consumo.

Quali benefici dovrebbe garantire il mangiare la propria placenta?

Secondo chi sostiene l’utilità di questa pratica ingerire la propria placenta dovrebbe ridurre il dolore post partum, migliorare il tono dell’umore, aumentare l’energia, accrescere la montata lattea e potrebbe addirittura avere proprietà anti-invecchiamento. Una vera panacea, insomma. Al punto che, in un articolo abbastanza critico, il quotidiano statunitense Washington Post ha scritto: “Un farmaco miracoloso auto-prodotto dallo stesso corpo della donna” (Wootson 2017), pubblicizzato dal passaparola e dagli aneddoti più improbabili rilanciati sul web. Il tutto è avvenuto cogliendo perlopiù in contropiede ginecologi, ostetrici e medici di medicina generale, legittimamente non adeguatamente informati nel merito delle risposte da dare alle domande delle puerpere.

Nessun nutriente placentare o ormone viene trattenuto in quantità sufficienti dopo l’incapsulamento della placenta per essere eventualmente assunta dalla madre dopo il parto. In contrasto con la convinzione dei benefici clinici associati alla placentofagia, il Centers for Disease Control and Prevention ha recentemente emesso un avvertimento successivamente ad un caso in cui un neonato ha sviluppato una recidiva di sepsi neonatale da streptococco di gruppo B dopo che la madre aveva ingerito placenta contaminata contenente Streptococcus agalactiae (CDC 2016). La prestigiosa istituzione sanitaria statunitense – l’ente che monitora la salute della popolazione degli Stati Uniti – ha raccomandato di evitare l’assunzione di capsule di placenta a causa dell’inadeguata eradicazione degli agenti patogeni infettivi durante il processo di incapsulamento. Pertanto, in risposta a una donna che manifesti interesse per la placentofagia, i medici dovrebbero informarla sui rischi riportati e sull’assenza di benefici clinici associati all’ingestione.

In definitiva, i medici dovrebbero scoraggiare questa pratica (Farr et al 2017). Le organizzazioni sanitarie dovrebbero sviluppare linee guida cliniche chiare per attuare un approccio scientifico e professionale che disincentivi questa pratica inutile e potenzialmente dannosa.

Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
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