Le nuove terapie hanno reso curabile il cancro?

9 Febbraio 2018 di Fabio Ambrosino (Pensiero Scientifico Editore)

È quello che tutti ci auguriamo. Ma è necessario essere prudenti e coniugare ottimismo e realismo, alla luce dei progressi della scienza e della complessità dei problemi clinici che caratterizzano le patologie oncologiche.

Sono stati fatti dei progressi nella cura del cancro oppure no?

La medicina ha raggiunto risultati impensabili solo fino a poco tempo fa. In generale, lo sviluppo di nuovi medicinali ha cambiato la storia naturale di molte malattie, dall’ipertensione arteriosa all’infarto miocardico acuto. Anche in ambito oncologico, leucemie e linfomi erano un tempo delle patologie invariabilmente fatali mentre oggi la normalità è la sopravvivenza e non la morte. Una cosa molto importante, però, è fare attenzione nel parlare di “cancro” come se intendessimo una sola patologia: con questa parola si intendono moltissime malattie assai diverse tra loro.

A questo proposito, chi conosce la lingua inglese può visitare le pagine del sito della American Association for Cancer Research e quelle della American Cancer Society per avere una panoramica delle diverse patologie oncologiche.

Proprio i progressi della ricerca e della clinica degli ultimi anni ci hanno mostrato che anche all’interno di una stessa patologia – per esempio, il cancro della mammella – esistono differenze molto importanti che possono modificare radicalmente la gravità o la prognosi della malattia.

La sintesi di nuovi principi attivi e la loro commercializzazione si accompagna comunque a delle incertezze riguardo gli effetti che potranno avere una volta introdotti nella pratica clinica, quello che la comunità scientifica definisce “il mondo reale”. È necessario, anche per questo, che le sperimentazioni che sono alla base dell’approvazione delle nuove terapie siano progettate (disegnate) e condotte in modo rigoroso e più accurato possibile: in altre parole, sia i professionisti sanitari, sia i cittadini hanno bisogno di evidenze solide, che possano resistere quanto più possibile alla loro valutazione critica.

Come vengono valutate le terapie contro i tumori?

“Non è sufficiente che una teoria sull’efficacia di un trattamento suoni convincente, deve essere provata” (Evans et al, 2007). E, per “provarla”, ogni terapia – non soltanto quelle rivolte ai tumori – deve superare una serie di gradini che valutano progressivamente le caratteristiche farmacologiche, la sicurezza, l’efficacia assoluta e in confronto alle altre cure già disponibili. Sono le quattro fasi della sperimentazione, ben spiegate sinteticamente sul sito dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (AIRC, 2013).

Non sono troppe queste fasi diverse di sperimentazione?

È un problema di cui si discute da tempo, anche per venire incontro alla domanda legittima dei pazienti e dei loro familiari che sanno quanto sia fondamentale la tempestività nell’accesso a cure che possono rivelarsi determinanti. Alcuni correttivi per rendere le sperimentazioni controllate randomizzate più semplici da condurre, e forse più utili per migliorare la qualità della cura, sono già noti: per esempio, si possono privilegiare gli studi cosiddetti “pragmatici”, che valutano l’intervento sperimentale su un numero limitato di pazienti, avendo cura di sceglierli con caratteristiche quanto più possibile simili a quelle delle persone alle quali il farmaco potrebbe essere somministrato nella pratica clinica reale.

Qualcuno – interpretando anche il desiderio dell’industria – sostiene che soprattutto riguardo patologie per le quali non esistono terapie efficaci sia necessario abbreviare radicalmente i tempi della sperimentazione, introducendo i nuovi medicinali e sottoponendoli a un monitoraggio successivo alla commercializzazione, che potrebbe giovarsi dei dati quasi automaticamente prodotti dai sistemi di rilevamento delle prescrizioni e degli esiti delle cure. “Ricorrere ai big data è la tentazione di molti – commenta Antonio Addis, della Commissione scientifico-tecnica dell’Agenzia italiana del farmaco – anche se quasi mai a dati di grande volume, prodotti ad alta velocità e molto variabili corrisponde un paragonabile livello di qualità”.

Molte volte, infatti, ci troviamo di fronte a quello che è stato definito un “ripensamento medico”, il sovvertimento di una convinzione e l’abbandono di una pratica a poca distanza dalla sua troppo precoce introduzione (Cifu e Prasad, 2015).

Ma è vero che esiste “un collo di bottiglia” nel percorso di approvazione dei nuovi farmaci?

Se consultiamo i rapporti delle istituzioni internazionali che “regolano” l’accesso dei nuovi prodotti al mercato, non sembra che esistano particolari ritardi. Nel 2015 l’agenzia statunitense (Food and Drug Administration) ha approvato l’89% delle richieste di autorizzazione (Hiltzik, 2016). D’altro canto nel suo report annuale la European Medicines Agency – l’ente europeo che valuta i farmaci – vanta una performance ancora migliore, con il 91% di opinioni positive nel 2015 (EMA, 2015). “Non vi è dubbio che la macchina per valutare le nuove tecnologie in sanità necessiti di una continua rettifica”, spiega Antonio Addis. “Tuttavia, bisognerebbe provare a concentrarsi anche sulle metodiche che possono aiutare a capire il valore aggiunto di un medicinale oltre che lavorare sulla velocità di accesso.” L’aspetto fondamentale, che talvolta è trascurato, riguarda la valutazione attenta dei reali benefici che una nuova terapia è in grado – se non di garantire – almeno di promettere al paziente. Troppo spesso, infatti, i vantaggi dei nuovi prodotti non riguardano la sopravvivenza e sono limitati al miglioramento di particolari parametri che influiscono in misura marginale sul benessere del malato: le istituzioni regolatorie (FDA, EMA) accettano di autorizzare più rapidamente l’immissione in commercio di nuovi farmaci sulla base di questi criteri (definiti “esiti surrogati”) confidando che una più lunga osservazione degli effetti dei medicinali possa mostrare benefici anche sulla sopravvivenza dei pazienti. Ma questo, purtroppo, non sempre accade (Mailankody e Prasad, 2015).

Come ha dichiarato Paolo Vineis, medico e ricercatore, al sito dell’AIRC: “Solo la ricerca scientifica può contribuire a dare risposte ai dubbi degli individui, e quando le risposte non sono certe, ma solo ragionevolmente vere, è perché la ricerca deve procedere per successive approssimazioni. Le nozioni che acquisiamo ogni giorno grazie al lavoro dei ricercatori servono proprio a diradare le incertezze e a fornirci solide basi per scegliere la migliore cura possibile o il giusto comportamento”.

Dove approfondire?

Autore Fabio Ambrosino (Pensiero Scientifico Editore)

Fabio Ambrosino ha conseguito un master in Comunicazione della Scienza presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Dal 2016 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per siti di informazione e newsletter in ambito cardiologico. È particolarmente interessato allo studio delle opportunità e delle sfide legate all’utilizzo dei social media in medicina.
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