La scienza dà risposte certe e immutabili?

15 Settembre 2021 di Roberta Villa

La scienza dà risposte certe e immutabiliChi era convinto che la scienza fosse portatrice di verità granitiche, immutabili e, soprattutto, indiscutibili, durante questi mesi di pandemia ha dovuto fare i conti con una realtà ben diversa. L’emergere di un virus nuovo e sconosciuto, la sua diffusione in tutto il mondo, la formazione di varianti, le modalità di risposta dell’umanità a questa minaccia: tutta la realtà che ci circonda è stata oggetto di cambiamenti, tuttora in corso, solo in parte prevedibili e solo in parte interpretabili attraverso categorie ben definite. A dominare è stata, ed è ancora, in parte, l’incertezza.

Per la prima volta nella storia tutti – o almeno la maggior parte – degli abitanti del pianeta hanno guardato alla scienza come unica possibile portatrice di risposte e soluzioni per trovare una via d’uscita da una situazione che minaccia la salute di tutti, paralizzando allo stesso tempo la società e l’economia. E la scienza non ha deluso, fornendo modelli che hanno indirizzato la scelta di misure non farmacologiche, come distanziamento o mascherine; vagliando le terapie già esistenti e cercando di metterne a punto di nuove, come alcuni anticorpi monoclonali; realizzando a tempo di record vaccini sicuri ed efficaci, che stanno arginando i danni della variante delta.

Dottore, è vero che su alcuni punti si è contraddetta perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità?

La conoscenza del virus e della malattia è proceduta per certi versi in maniera spedita e solida (basti pensare alla rapidità, rispetto a casi precedenti, con cui è stato sequenziato e reso pubblico il genoma del nuovo virus), per altri a tentativi ed errori (per esempio su come curare una malattia che inizialmente sembrava simile a una grave influenza, ma presto ha mostrato peculiarità del tutto caratteristiche).

Anche le istituzioni più autorevoli hanno talvolta cambiato idea, per esempio riguardo all’uso universale delle mascherine, un caso paradigmatico di come le raccomandazioni si sono modificate in relazione alla raccolta di nuovi dati, ma anche al cambiare delle circostanze [1]. In un primo momento, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ne consigliava l’uso solo agli operatori sanitari e a chi avvertisse sintomi compatibili con Covid-19. Gli studi del passato sulle pandemie influenzali, infatti, non erano convincenti riguardo all’utilità delle mascherine quando indossate dalla popolazione generale. In mancanza di prove certe di efficacia, anche in considerazione della carenza globale di dispositivi di protezione, si riteneva prioritario insistere sul distanziamento interpersonale, l’igiene respiratoria e il lavaggio frequente delle mani, lasciando le poche mascherine disponibili a coloro per i quali erano sicuramente indispensabili. Quando poi è stato dimostrato che proteggere bocca e naso riduce invece moltissimo il rischio di contagiare e contagiarsi con SARS-CoV-2, la stessa agenzia internazionale ha cambiato rotta. In parte è cresciuta la nostra conoscenza, ma in parte è anche evoluto l’oggetto della nostra indagine, il virus SARS-CoV-2 che, già nella primavera del 2020, in Europa, era cambiato rispetto al ceppo originale studiato dai ricercatori cinesi a Wuhan.

Dai primi grandi studi condotti in Cina, per citare un altro esempio, sembrava che solo in casi eccezionali persone apparentemente in buona salute, seppure infette, potessero contagiarne altre. Basandosi su questi dati scientifici che sembravano affidabili, l’OMS ha a lungo sostenuto questa posizione, determinando così un grosso impatto sulle scelte strategiche nazionali nella gestione della pandemia. Ma forse quei dati non erano stati raccolti in maniera sufficientemente rigorosa, oppure, nel frattempo, il virus si era adattato sempre meglio alla trasmissione tra gli esseri umani. Qualche mese dopo fu chiaro, infatti, che il ruolo degli asintomatici nella diffusione del contagio era non solo frequente, ma cruciale [2,3].

Dottore, alcune scelte possono essere influenzate anche dalla politica?

Nel corso della pandemia è anche capitato che enti autorevoli come la stessa OMS e i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) statunitensi abbiano emesso linee guida discordanti tra loro: come è possibile, partendo da dati scientifici comuni? È più che possibile perché sulle linee guida pesano, oltre ai dati scientifici, anche scelte politiche. Qui per politica si intende lo sguardo rivolto a obiettivi diversi a cui si può mirare tramite diverse strategie, sia in funzione delle differenze tra interesse nazionale e interesse globale, sia alla luce delle caratteristiche culturali, anagrafiche, relative ai sistemi sanitari specifici e così via.

Paesi come la Cina hanno seguito la strategia definita #zerocovid perché in grado di mettere in lockdown una metropoli di dieci milioni di abitanti per una manciata di casi. Altri hanno potuto evitare chiusure così radicali, ma grazie alla collaborazione della popolazione hanno potuto implementare sistemi di tracciamento molto invasivi della privacy. Altri ancora, per limitare la diffusione del virus, potevano contare su una scarsa densità di popolazione e abitudini poco “mediterranee”, con nuclei familiari ristretti e una scarsa attitudine al contatto fisico anche tra sconosciuti. Altri hanno deciso che un certo numero di vittime poteva essere tollerabile a fronte di un minore impatto sull’economia, e così via. I dati di partenza erano gli stessi, ma le scelte politiche ne hanno fatto usi diversi.

Un singolo studio va preso con le pinze?

La scienza dà risposte certe e immutabiliLa prima grave pandemia nell’era di internet ha usufruito di una maggiore facilità nello scambio di informazioni tra gli scienziati, che ha contribuito a un rapido progresso delle conoscenze, ma anche nell’accesso a queste stesse informazioni da parte dei media e del pubblico.

La libera circolazione dei risultati e delle idee, anche attraverso il fenomeno detto di “preprint”, cioè la pubblicazione online di ricerche non ancora sottoposte a revisione da parte di altri scienziati (la cosiddetta peer-review), come accade prima dell’accettazione da parte delle più importanti riviste, ha tuttavia contribuito a un sovraccarico informativo, ricco di apparenti contraddizioni, che è stato prontamente ribattezzato “infodemia” e che ha alimentato la falsa idea di una scienza inaffidabile, che un giorno afferma una cosa e il giorno dopo la contraddice [4]. La conoscenza scientifica però si ottiene come un puzzle dalla somma dei tanti pezzetti che emergono dalle singole ricerche: i loro diversi colori permetteranno alla fine di ricostruire un’immagine che abbia un senso.

La scienza lo fa, però, con i suoi metodi e con il suo linguaggio. Metodi e linguaggio che, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non si basano su certezze, ma sul dubbio, inteso come riduzione dell’incertezza. E questa volta lo abbiamo visto in tempo reale.

Il processo della produzione di conoscenza in ambito scientifico si è svolto per la prima volta sotto gli occhi di tutti, relegando nel mondo dei fumetti l’inventore solitario che sancisce con un “eureka” esclamato ad alta voce la sua rivoluzionaria scoperta: tutti hanno potuto verificare come i dati si accumulano provenendo da centinaia di laboratori e ospedali di tutto il mondo, si confrontano, si integrano, talvolta si smentiscono, spesso sono gravati da errori nel disegno o nella realizzazione dello studio. Moltissimi ricercatori di tutto il mondo e di tutte le discipline si sono buttati a capofitto sui temi legati alla pandemia, che continua a monopolizzare l’attenzione di tutti. Questo fenomeno, sostenuto anche da finanziamenti senza precedenti, ha portato molti frutti, ma ha anche permesso scivoloni che ricercatori di valore non avrebbero fatto nel loro campo specifico. Il principio di autorità, che già dovrebbe essere usato con cautela nei confronti degli esperti, vale ancor di meno quando si occupano di argomenti diversi dal proprio campo abituale di ricerca.

L’incertezza che tutti avvertiamo è quindi in parte dovuta al fattore umano, ma molto più alla dimensione propria della scienza, che fornisce tutti i suoi risultati indicandone un “intervallo di confidenza”, una finestra all’interno della quale si trova il risultato, tanto più solido quanto più stretto è questo range, un po’ come nelle proiezioni elettorali.

Dottore, ma è vero che la scienza si basa sul dubbio?

La ricerca scientifica procede per domande a cui si cerca via via una risposta. Se non si mettessero in dubbio i dati acquisiti, se non si cercasse di approfondirli, non ci sarebbe progresso scientifico [5,6].

Dieci anni fa in un articolo che riportava un dibattito sull’incertezza tenutosi nell’ambito della Royal Society britannica si citava la biografia del grande fisico e divulgatore Richard Feynman, secondo cui lo scienziato “credeva nella supremazia del dubbio, non come un difetto nella nostra capacità di conoscere, ma come essenza della conoscenza stessa. Come dire che Feynman riconosceva il dubbio, o l’incertezza, come una parte intrinseca del metodo scientifico, e quindi un elemento inerente alla previsione scientifica. Al contrario, le previsioni che non hanno o hanno scarse basi scientifiche si possono spesso riconoscere come tali proprio dalla totale incapacità di riconoscere l’esistenza dell’incertezza” [7,8].

Ad aggravare la capacità di previsione all’interno della pandemia c’è il fatto che da questo punto di vista, questa situazione assomiglia più a ciò che accade nel mondo dell’economia e della finanza che in quello della meteorologia: siccome l’evoluzione dei contagi – come gli scambi di borsa o le attività economiche e diversamente dalle condizioni atmosferiche – dipende dal comportamento delle persone, le previsioni stesse, una volta rese pubbliche, possono modificare alcune delle variabili su cui il modello stesso si basa. Per esempio, sapere che senza distanziamento l’epidemia produrrà in breve tempo un alto numero di vittime induce i decisori a introdurre misure di distanziamento e le persone a comportarsi in maniera più prudente, mentre venti e piogge ovviamente non cambiano in relazione a quel che si dice in tv.

Ma l’incertezza nella scienza è qualcosa di ancora più profondo: ogni dato scientifico è comunicato con un range di variabilità, che ne definisce l’accuratezza, e di cui bisognerebbe imparare a tenere conto, così come non si può sorvolare sulla significatività statistica di un risultato, quella che ci dice quanto è probabile che il dato sia emerso per caso oppure sia sostenuto da un campione sufficientemente numeroso per essere attendibile.

L’incertezza può essere sfruttata per la disinformazione?

La scienza dà risposte certe e immutabiliIn tutto questo il rischio è quello di credere che, se nemmeno la scienza ci offre certezze, il risultato di un lavoro scientifico possa essere considerato come una qualunque opinione. Non è così. Pur con tutti i suoi limiti, la conoscenza scientifica che deriva dalla messa in comune dei dati e delle valutazioni di centinaia di centri e scienziati in tutto il mondo (quella che chiamiamo “comunità scientifica”) è la migliore, la più attendibile su cui ci possiamo basare in un determinato momento. È possibile che tra qualche anno nuove conoscenze verranno a modificarla, ma è possibile anche che sarà sempre più confermata, e a oggi nessuna opinione di singoli individui o idea che ci pare più in sintonia con le nostre impressioni o i nostri valori può essere preferibile alle conclusioni ottenute sulla base di prove.

Per questo occorre guardarsi da quelli che Naomi Oreskes ha acutamente chiamato “Mercanti di dubbi”, titolo di un libro che racconta come l’industria del tabacco abbia cercato di destabilizzare l’opinione pubblica sui dati scientifici che dimostravano i danni provocati dal fumo [9]. Lo stesso, tramite gli stessi metodi, si è ripetuto con la crisi climatica e oggi lo vediamo con la pandemia: non occorre dimostrare che Covid-19 sia innocuo come un’influenza o che i vaccini siano pericolosi, basta insinuare un dubbio.

È così che funziona gran parte della disinformazione di cui siamo oggetto da parte di personaggi o trasmissioni televisive che si vogliono mostrare aperti a tutte le opinioni. Ecco, diversamente che per altri temi, le opinioni in ambito scientifico hanno un valore molto basso. Prevale un’analisi rigorosa dei dati, e sono questi a cui dobbiamo guardare, pur sapendo che a volte rappresentano una realtà parziale o in evoluzione, incerta appunto, ma in cui la scienza si propone esattamente questo: cercare di ridurre i margini di incertezza.

Dottore, ma è vero che la trasparenza è pericolosa?

Imparare a comprendere e governare questa incertezza è fondamentale nella pandemia, ma più in generale nella società complessa e in rapida evoluzione in cui viviamo. Per ottenere questo è indispensabile che media e istituzioni puntino sulla trasparenza. “Il primo passo per formare il pubblico e ottenere la loro fiducia è fare piani e comunicarli onestamente, compresi limiti, incertezza, tutto” ha esordito in un articolo del New York Times su questo tema la giornalista Apoorva Mandavilli [10].

E questo approccio funziona, come è stato dimostrato in Germania. “Davanti all’incertezza, esperti e politici spesso sorvolano, per timore che rivelandola si possa aumentare nel pubblico la sfiducia” spiega Odette Wegwarth, autrice di un’indagine che ha coinvolto circa 2.000 adulti tedeschi. “La maggior parte degli intervistati ha dichiarato di preferire una comunicazione che non nasconde l’incertezza. Anzi, tra coloro che sono più restii ad aderire alle misure governative di contenimento della pandemia, la comunicazione dell’incertezza agisce come un incentivo positivo” [11].

Un consiglio per i politici e i decisori, quindi: quando dovete comunicare dati scientifici incerti, non solo riguardanti la pandemia, non scommettete su una delle possibilità, dandola per certa, ma spiegate con chiarezza quel che sappiamo, quel che non sappiamo, quel che si sta facendo per capirlo. Questo atteggiamento procura fiducia, la moneta più preziosa [12].

Argomenti correlati:

MedicinaRicerca

Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
Tutti gli articoli di Roberta Villa

Bibliografia