Le parole sono importanti e una non vale un’altra. Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o noncuranza. Come ricordava l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a poche settimane dall’inizio di una crisi sanitaria che si sarebbe rivelata tra le più drammatiche della nostra epoca, pandemia “è una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura immotivata o l’accettazione ingiustificata che il contrasto all’emergenza sanitaria sia finito, portando a sofferenze e morte inutili” [1].
Rileggere oggi le parole del direttore generale dell’OMS suscita emozione, anche per la drammatica capacità di sintesi di una dichiarazione che precedeva di un giorno la dichiarazione dell’emergenza pandemica.
Erano 4.921 le persone che fino a quel giorno avevano perso la vita, i casi erano 118.000 in 114 nazioni: le cause determinanti della crisi erano la mancanza di capacità di accogliere i pazienti, la mancanza di risorse, la mancanza di soluzioni. Alla data del 14 aprile 2022 i casi documentati sono oltre 500 milioni, i morti più di 6 milioni e duecentomila [2]. Il 17 aprile 2022 gli italiani positivi a SARS-CoV-2 erano oltre 1 milione e duecentomila. È dunque comprensibile che l’OMS ancora non abbia riclassificato l’emergenza sanitaria, tenendo conto che il suo punto di osservazione è focalizzato sugli aspetti sanitari e lo sguardo è planetario, riguardando i singoli Paesi solo nella misura in cui ogni nazione concorre a determinare il quadro globale a livello internazionale.
Chi decide, all’interno dell’OMS, quando riclassificare la pandemia?
Dall’innesco dell’emergenza – vale a dire dal gennaio 2020, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’epidemia di SARS-CoV-2 un’emergenza sanitaria pubblica internazionale (Public Health Emergency of International Concern – PHEIC) – un comitato di esperti consulenti dell’OMS si riunisce per un aggiornamento sulla situazione e per valutare se le caratteristiche di emergenza pandemica sono ancora in essere o se le forme e la diffusione della malattia sono ancora tali da giustificare la definizione.
Oltre agli aspetti legati alla malattia in sé, cosa guida le decisioni dell’OMS?
La decisione di porre fine a una PHEIC ha anche implicazioni economiche non banali. Pensiamo ad esempio all’industria biotecnologica Moderna che si è impegnata a non imporre brevetti sul suo vaccino a RNA messaggero fino alla fine della pandemia. Decisioni importanti, dunque, non solo di tipo economico o finanziario, ma anche in un’ottica di sanità pubblica globale. Due grandi industrie farmaceutiche come Pfizer e Merck & Co (in Italia MSD Italia) hanno a suo tempo comunicato di consentire ai produttori di farmaci equivalenti (in altri termini medicinali identici a quelli “di marca” ma molto più economici) di produrre i loro farmaci utili per contrastare Covid-19 fino a quando l’OMS non dichiarerà la fine della PHEIC [3]. Dichiarare conclusa la PHEIC, quindi, avrà un impatto anche sui principali programmi di vaccinazione delle nazioni a medio e basso reddito, come la COVID-19 Vaccines Global Access Facility (COVAX) e l’Access to COVID-19 Tools (ACT) Accelerator, reti collaborative globali che mirano ad acquisire e distribuire a prezzi accessibili farmaci, diagnostica e vaccini. “Le operazioni di emergenza di COVAX e ACT-A finiranno” ha dichiarato a Science Seth Berkley, presidente di GAVI, la Vaccine Alliance, coinvolta in entrambe le strategie internazionali.
Quindi le decisioni dell’OMS sono dettate dalla convenienza?
No. Anche se non è ragionevole non tener conto anche degli aspetti di cui prima si diceva. Nel prendere decisioni, gli esperti dell’OMS considerano ovviamente parametri come il numero dei casi, il peso sui sistemi sanitari in termini di ricoveri e di mortalità ma anche – e questa è la grande novità almeno per una parte del pianeta – il numero di vaccinazioni eseguite. Ecco: un’ampia ed equa copertura vaccinale potrebbe accelerare la riclassificazione dell’emergenza sanitaria da pandemica a endemica. Ma alla metà di aprile 2022 nel mondo solo il 66% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino contro Covid-19 [4] con una scandalosa disomogeneità a seconda dei continenti e del reddito della popolazione. In Africa le persone vaccinate con una dose sono solo il 16% della popolazione. Senza contare che l’efficacia dei diversi vaccini non è uguale.
Pandemia e globalizzazione sono saldamente intrecciate l’una con l’altra. Qualcuno lamenta che proprio la vicinanza tra le genti, tra le nazioni e i continenti abbia contribuito – se non determinato – velocità e rapidità del contagio. Ma se c’è una cosa che oggi sappiamo è che la via d’uscita dalla pandemia è nell’accettazione di questa interdipendenza e nella solidarietà: come ha scritto il famoso filosofo francese Edgar Morin, la crisi planetaria nata dal coronavirus ha messo in risalto il legame indissolubile tra la nostra vita (individuale e collettiva) e la salute ecologica del pianeta Terra. Una crisi che può essere affrontata solo ricorrendo a politiche sociali e sanitarie solidali tra le nazioni [5].
Che relazione c’è tra le scelte dell’OMS e quelle dei governi nazionali?
Un conto sono le decisioni assunte dalla massima autorità sanitaria internazionale – l’OMS – e un altro quelle prese dai governi nazionali. Come abbiamo visto nei due anni passati, pur permanendo una crisi pandemica diverse nazioni hanno progressivamente reso meno rigorose e vincolanti le misure di contenimento o di distanziamento fisico tra i cittadini, così come gli obblighi di ricorrere a dispositivi di protezione individuale. I criteri sono più politici – o, se vogliamo, di governo “sociale” della crisi sanitaria – che scientifici. Come spiega il medico e studio di scienze sociali Nicholas Christakis nel suo libro La freccia di Apollo [6], la portata di un’epidemia si riduce col diminuire – per diverse ragioni – del numero di persone che sono suscettibili di essere contagiate.
Quindi è ipotizzabile una conclusione della pandemia?
Con tempi sicuramente più lunghi della conclusione “sociale”, è certamente più che probabile che la pandemia si trasformi, diventando la malattia e la sua diffusione più governabili. Con un approccio molto pragmatico, lo stesso Christakis delinea uno scenario in cui la maggioranza della popolazione avrà sviluppato delle difese immunitarie: “Questo è il modo ordinario e naturale per cui, biologicamente parlando, le epidemie finiscono” [6].
Qui conviene prendersi il tempo per capire una cosa importante. Dato che la protezione immunitaria di un numero sempre maggiore di persone viene potenziata nel tempo da reinfezioni naturali o da richiami di vaccini, possiamo aspettarci che una quota sempre più ampia di nuove infezioni sia asintomatica o, nel peggiore dei casi, sia causa di una malattia lieve. In questo modo, il virus continuerà a circolare e, nei Paesi dove la malattia si è diffusa di meno, molte persone resteranno suscettibili. Questo potrebbe spiegare l’inattesa forte diffusione di Covid-19 in nazioni che erano state capaci – talvolta con metodi non propriamente democratici – di arginare l’epidemia nelle prime ondate [7]. In conclusione, la combinazione tra diffusione della malattia in forma lieve e richiami vaccinali potrebbe essere la soluzione.
C’è anche chi è più prudente. Come Michael Osterholm, un epidemiologo molto esperto di malattie infettive che studia e insegna all’Università del Minnesota: “Se c’è mai stato un momento in cui serve umiltà tra scienziati e politici in relazione a questo virus, è quello che stiamo vivendo” ha detto a un giornalista di Science [3]. “Siamo in un territorio totalmente inesplorato dal punto di vista della comprensione di cos’è una pandemia”.
Dunque, la data di conclusione della pandemia dipenderà dai comportamenti delle persone più che dalle decisioni dell’OMS e dei governi.
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