Da dove nasce l’idea che l’AIDS colpisca solo gli omosessuali?
La storia dell’AIDS, cioè della sindrome da immunodeficienza acquisita, e dell’HIV, il virus che la causa, ha avuto inizio nel 1980, negli Stati Uniti, al Los Angeles Medical Center. Il dottor Micheal Gottlieb venne chiamato a visitare un paziente – trentatreenne, bianco, omosessuale – con una grave forma di polmonite e un’infezione orale dovuta al fungo Candida albicans. Il paziente mostrava anche segni di un’infezione da citomegalavirus. A distanza di un anno lo stesso medico Gottlieb visitò un altro paziente, omosessuale di 33 anni, che mostrava un quadro clinico molto simile. Nel giro di poco aumentarono i casi di giovani uomini omosessuali con infezioni soprattutto di C. albicans e citomegalovirus: il comune denominatore era una forma di immunodeficienza di origine ignota purtroppo incurabile che inizialmente la comunità medico-scientifica chiamò con il nome di Gay Related Immunodeficiency Syndrome (sindrome da immunodeficienza correlata all’essere gay).
Ma questa associazione tra omosessualità e morbo venne presto smentita con la segnalazione da parte del Jackson Memorial Hospital di Miami, in Florida, di diversi casi analoghi che riguardavano però pazienti non bianchi e non omosessuali, sia uomini sia donne. Nel giro di poco i Centers for disease control statunitensi riportavano altri casi tra tossicodipendenti e anche emofiliaci. Il quadro che emergeva era quello di una malattia trasmissibile sessualmente o attraverso il contatto diretto con sangue infetto. Nel 1982 il termine Gay Related Immunodeficiency Syndrome venne quindi corretto in Acquired ImmunoDeficiency Syndrome, da cui la sigla AIDS con cui viene chiamata la sindrome in tutto il mondo [1].
Intanto attorno a questa malattia inguaribile, asintomatica nei suoi primi stadi e altamente contagiosa, si venne a creare un terrore sociale e conseguentemente una discriminazione e uno stigma verso chi ne è affetto (anche solo potenzialmente). E per molto tempo l’etichetta “peste gay” e “flagello di Dio contro gli omosessuali” ha mantenuto in vita l’idea che l’AIDS colpisca prevalentemente gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini, nonostante le conoscenze scientifiche sulla modalità di trasmissione dell’HIV – distogliendo l’attenzione dal concreto e reale rischio di diffusione dell’infezione nel mondo: la trasmissione eterosessuale.
Per avere un’ulteriore conferma che l’AIDS non colpisce solo gli uomini che hanno rapporti con persone del proprio sesso è sufficiente leggere i dati epidemiologici: per esempio in Italia nel 2017 sono state 3.443 le nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti con un’incidenza pressoché uguale a quella della media osservata tra le nazioni dell’Unione Europea (5,8 nuovi casi per 100.000). I casi più numerosi, si legge nel Notiziario Istisan dell’Istituto Superiore di Sanità [2], sono attribuibili a trasmissione eterosessuale (46%), seguiti dai casi relativi a maschi omossessuali (38%), persone che usano sostanze stupefacenti (3%). Quindi solo quattro casi di nuove infezioni riguardano gli omosessuali.
L’AIDS può colpire chiunque?
Sì ma solo in determinate condizioni. L’AIDS è una malattia virale causata dal virus dell’immunodeficienza umana HIV che si trasmette attraverso il sangue. Il virus colpisce le cellule specializzate del nostro sistema immunitario chiamate linfociti T-Helper (o CD4) e, dopo essersi moltiplicato al loro interno, le distrugge progressivamente. Quando il numero di linfociti scende al di sotto di un certo valore critico, il sistema immunitario non è più in grado di arrestare la moltiplicazione dell’HIV e di difendersi da altri microrganismi con cui entra in contatto. Ragion per cui inizialmente la persona sieropositiva è asintomatica fino a quando non compaiono una serie di infezioni opportunistiche ed entra nella fase dell’AIDS conclamato. Quindi ogni persona che viene a contatto con il virus attraverso il sangue, indipendentemente dall’etnia, dall’età, e dalle proprie preferenze sessuali, può sviluppare l’AIDS. Più che di categorie a rischio di infezioni è opportuno ragionare di comportamenti a rischio di trasmissione del virus [3].
Quali sono questi comportamenti a rischio?
Esistono tre diverse modalità di trasmissione dell’HIV:
- via ematica
- via sessuale
- via materno-fetale [3,4]
Il contagio per via ematica avviene attraverso lo scambio di siringhe infette o attraverso trasfusioni di sangue infetto.
Quello per via sessuale è il più diffuso, la carica virale presente nello sperma e nelle secrezioni vaginali può infatti raggiungere livelli elevati. Pertanto tutti i rapporti sessuali non protetti dal preservativo – vaginali, anali e orali, sia eterosessuali sia omosessuali – possono essere causa di trasmissione dell’infezione se uno dei due partner è sieropositivo (cioè ha già contratto il retrovirus, non necessariamente ha sviluppato la malattia). La trasmissione avviene attraverso il contatto tra liquidi biologici (secrezioni vaginali, liquido pre-eiaculatorio, sperma, sangue) contenenti i virus e le mucose. I rapporti anali sono quelli più a rischio perché le mucose di rivestimento sono più fragili e più facilmente si lesionano e sanguinano. In aggiunta i rapporti sessuali non protetti possono causare il contagio di una trentina di infezioni sessualmente trasmesse che a loro volta sono un’aggravante: queste infezioni causano ulcerazioni e lesioni a livello genitale che possono far aumentare il rischio di contagio con l’HIV.
Terza e ultima modalità di trasmissione è quella da madre a figlio: può avvenire durante la gravidanza, durante il parto, o con l’allattamento. Come spiega l’Istituto Superiore di Sanità “il rischio per una donna sieropositiva di trasmettere l’infezione al feto è circa del 20%. Tuttavia è possibile ridurre tale rischio al di sotto del 2% somministrando la zidovudina (Azt, il primo farmaco usato contro l’Hiv) alla madre durante la gravidanza e al neonato nelle prime sei settimane di vita. Per stabilire se è avvenuto il contagio il bambino deve essere sottoposto a controlli ripetuti in strutture specializzate entro i primi sei mesi di vita. Per la sicurezza del neonato, tutte le coppie che intendono avere un bambino dovrebbero valutare l’opportunità di sottoporsi al test per l’HIV” [3].
L’HIV si trasmette con un bacio o una stretta di mano?
Il virus non viene trasmesso con la saliva, quindi non basta una semplice stretta di mano o la condivisione di oggetti casalinghi, quali piatti, bicchieri o posate, o un semplice bacio per essere contagiati. Un bacio è potenzialmente contagioso solo nel caso in cui sia un bacio in bocca e la persona sieropositiva abbia delle lesioni macroscopicamente visibili nella mucosa boccale: quindi è un evento raro.
L’idea errata che sia sufficiente un bacio per prendere il virus dell’AIDS è frutto dello stigma verso questa malattia. È passato alla storia il bacio in bocca dato dall’immunologo Ferdinando Aiuti a Rosaria Iardino, una ragazza sieropositiva, per dimostrare all’opinione pubblica che il bacio profondo non trasmette l’AIDS. “Quel bacio fu la miglior campagna contro lo stigma verso l’HIV”, ha dichiarato Rosaria Iardino commentando la scomparsa dell’immunologo “ll nostro bacio altro non era che un grido e un richiamo al coraggio di parlare di AIDS, di andare avanti con lo studio e con la ricerca, di informare e di curarsi” [5].
La trasmissione dell’HIV e il contagio sono sempre stati associati a comportamenti etichettati come trasgressivi, quali l’omosessualità, la promiscuità sessuale e la prostituzione, il consumo di droghe [6]. Tale atteggiamento viene percepito come esclusione dalle persone a rischio di contagio o già contagiate che sono costrette a vivere la loro condizione in una stretta clandestinità. Lo stigma e le discriminazioni non permettono una diagnosi precoce e inoltre distolgono l’attenzione dalla prevenzione del contagio.
“La pandemia dovuta all’HIV in molte parti del mondo si sta ancora espandendo. Forse uno dei maggiori fraintendimenti dell’opinione pubblica (e dei mezzi di comunicazione) è la confusione tra nuovi casi di AIDS, intesi come malattia conclamata, e nuovi casi di infezione. I primi stanno diminuendo, grazie alle terapie, i secondi, invece, sono stabili o addirittura in aumento. E sono questi ultimi che devono preoccupare, perché ogni persona infetta dall’HIV, se non curata, svilupperà l’AIDS entro un certo numero di anni. Inoltre, le persone infette senza saperlo trasmettono il virus ad altre persone, diffondendo ulteriormente l’infezione”, scrive Giovanni Maga, responsabile della sezione Enzimologia del DNA & Virologia molecolare presso l’Istituto di Genetica Molecolare dell’IGM-CNR di Pavia, nel suo libro AIDS: la verità negata [1]. “Per ogni persona che viene trattata con i farmaci, altre due si infettano. L’AIDS non è la malattia di nessuno in particolare, è piuttosto la malattia di tutti. La scienza non è ancora riuscita a trovare una cura risolutiva, ma dispone di tutti gli strumenti per controllare l’infezione da HIV. A limitare grandemente la nostra capacità di contenere, anzi, fermare l’epidemia, più degli impedimenti tecnici o dei limiti scientifici, sono l’ignoranza e il pregiudizio come percezione della malattia quale elemento stigmatizzante dei malati, che porta a utilizzare l’AIDS come fattore di discriminazione sociale”.
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