Il modello svedese per la gestione di Covid-19 ha funzionato?

11 Novembre 2020 di Giada Savini (Pensiero Scientifico Editore)

Il “modello svedese”, ovvero la scelta della Svezia di non imporre alcun lockdown e di affidarsi alla responsabilità individuale e quindi collettiva per arginare la diffusione del SARS-CoV-2 è stata oggetto di dibattiti, dalla scorsa primavera a oggi. Ma questa decisione – che inizialmente aveva diviso l’opinione pubblica tra coloro che individuavano nel modello svedese un esempio straordinario e altri che invece temevano che queste misure fossero poco prudenti – oggi sembra non aver portato buoni risultati. Il numero di contagi e i decessi a causa di Covid-19 “suggeriscono che il Paese potrebbe pagare un prezzo preoccupante” sottolineava Business Insider già nel maggio scorso, che, riportando i dati della Johns Hopkins University, affermava che la Svezia aveva, cinque mesi fa, “un numero di morti pro capite più elevato rispetto a molti altri Paesi” [1].

Per fare chiarezza, la Svezia ha poco più di 10 milioni di abitanti e ha avuto circa 4 mila decessi per Covid-19 nel mese di maggio e poco più di 6 mila a oggi. In termini assoluti sembrano dati migliori di quelli di alcuni grandi Paesi (si pensi agli Stati Uniti, in cui il bilancio delle vittime ha superato le 230 mila). Ma “rispetto alle dimensioni della popolazione svedese, il numero di persone che sono morte è in linea con i Paesi che hanno avuto focolai molto più grandi” [1].

In cosa consiste il “modello svedese”?

Il governo svedese non ha mai ordinato un lockdown integrale (sin dal mese di marzo sono stati vietati i raduni di oltre 50 persone e le visite alle residenze per anziani) e ha tenuto aperti gli asili nido e le scuole primarie. È stato raccomandato il lavoro a distanza quando possibile, il distanziamento nei locali e sono stati sconsigliati gli spostamenti non indispensabili all’interno del Paese.
Ad ogni modo, mentre molti Paesi adottavano – e hanno nuovamente adottato – una politica di rigore, gli abitanti della Svezia hanno potuto – e possono ancora oggi – incontrarsi nei caffè o allenarsi in palestra. Va detto, però, che sebbene negozi e ristoranti siano rimasti aperti, le analisi dei dati dei telefoni cellulari hanno dimostrato che molti svedesi sono rimasti a casa, in una percentuale non molto diversa da quella registrata in altre nazioni. Le politiche messe in atto dalla Svezia intendevano evitare di compromettere la prosecuzione della vita quotidiana e, secondo alcuni, erano in linea con la speranza di ottenere una sorta di immunità di comunità [2].

Cosa distingue il “modello svedese” dalle misure adottate dalle altre nazioni?

Come abbiamo detto, in generale l’approccio è diverso ed è almeno apparentemente meno vincolante per i cittadini. Un esempio molto rappresentativo è offerto dalle raccomandazioni in merito alle mascherine facciali il cui uso non è consigliato neanche in ambienti pubblici “poiché le prove scientifiche sull’efficacia delle maschere per il viso nel combattere la diffusione dell’infezione non sono chiare” e, inoltre, perché indossare le mascherine porta la persona a toccarsi frequentemente il viso per riposizionarle qualora si fossero abbassate, per grattarsi o per pulire gli occhiali appannati. È un’interpretazione molto rigida dei risultati della ricerca che, a livello internazionale, non è effettivamente riuscita a dimostrare in modo inequivocabile la maggiore efficacia protettiva dei dispositivi di protezione del viso. Tuttavia, le autorità svedesi non negano l’esistenza di situazioni in cui le maschere per il viso possono essere utili: per esempio, specificano, quando non è possibile evitare di utilizzare i mezzi pubblici anche se sono affollati. Secondo le autorità sanitarie svedesi, le mascherine per il viso devono essere sempre considerate complementari ad altri consigli: restare a casa quando si hanno sintomi, lavarsi le mani regolarmente e tenersi a distanza da altre persone.

L’assistenza ai pazienti è stata uguale a quella degli altri Paesi?

Dal punto di vista dell’assistenza medica, in tutti i Paesi avanzati la cura dei malati ha seguito protocolli molto simili, a mano a mano che emergevano le evidenze di efficacia o di danno delle terapie sperimentate. In Svezia, però, molti pazienti gravemente malati non sono stati ricoverati. “Una direttiva del 17 marzo rivolta agli ospedali dell’area di Stoccolma ha stabilito che i pazienti di età superiore a 80 anni o con un indice di massa corporea superiore a 40 non avrebbero dovuto essere ammessi in terapia intensiva, perché avevano meno probabilità di riprendersi. La maggior parte delle residenze sanitarie assistenziali non erano attrezzate per somministrare ossigeno, così che a molti ospiti è stata somministrata solo morfina per alleviare le loro sofferenze. Diversi giornali hanno riportato storie di persone decedute dopo essere state respinte al pronto soccorso perché ritenute troppo giovani per soffrire di gravi complicazioni dovute a Covid-19” [2].

Dottore, com’è la situazione oggi?

Più recentemente la celebre rivista statunitense Time ha proposto un’analisi molto dettagliata, che è giunta a conclusioni scettiche nei confronti di quello che viene definito “l’esperimento svedese” che “è quasi certo che si tradurrà in un fallimento netto in termini di morte e sofferenza” [3]. A partire dal 13 ottobre, come riporta la rivista, “il tasso di mortalità pro capite della Svezia è di 59,4 per 100.000 persone, il dodicesimo più alto al mondo [esclusi i piccoli stati di San Marino e Andorra]”, un numero circa dieci volte maggiore delle vicine Finlandia e Norvegia. “Ma forse più sorprendenti sono i risultati di uno studio pubblicato il 12 ottobre sul Journal of the American Medical Association” affermano gli autori di Time, che sottolineano come tra i Paesi analizzati dai ricercatori “Svezia e Stati Uniti […] sono gli unici con tassi di mortalità complessivi elevati, che non sono riusciti a ridurre rapidamente quei numeri con il progredire della pandemia” [3,4].
Anche una rivista specializzata che fa parte di un gruppo editoriale molto autorevole, quello di The Lancet, si è espressa negativamente in merito alla “posizione passiva” adottata in Svezia per evitare un lockdown che “ha provocato un aumento dei decessi, non solo nelle residenze per anziani, ma anche tra gli anziani residenti in comunità” [5]. A proposito delle residenze per anziani, i dati svedesi sono terribili: il 7 per cento dei 14 mila anziani ospiti delle strutture di Stoccolma è morto per Covid-19 [2].
A oggi, il numero di contagi in Svezia, analogamente a quanto avviene nel resto d’Europa, è di nuovo in aumento, secondo i dati della Johns Hopkins University [5]. Questo potrebbe essere attribuito anche all’intensificarsi dell’attività di tracciamento di contatti e test, ma uno studio pubblicato a inizio ottobre dall’Istituto reale svedese di tecnologia (KTH) sostiene che una “maggiore concentrazione del virus nelle acque reflue mostra un aumento del virus nella popolazione (residente) nell’area di Stoccolma, dove vive la gran parte della popolazione del Paese, in modo del tutto indipendente dai test” [3,7].

Dottore, adesso la Svezia sta adottando misure più severe?

Alcune regioni stanno adottando misure più restrittive di quelle governative. Gli abitanti di Stoccolma e di altre due regioni del sud del Paese sono fortemente invitati a non utilizzare i mezzi pubblici se non necessario, a evitare “ambienti interni come negozi, centri commerciali, musei, biblioteche, piscine e palestre” e grandi incontri all’aperto (“riunioni, concerti, spettacoli, competizioni e attività sportive”) [8]. Eccezioni sono previste solo per i supermercati e le farmacie. Inoltre, è fortemente raccomandato evitare il contatto fisico con persone esterne alla propria famiglia. Queste misure sono frutto dell’aumento significativo di nuovi contagi, “poiché il Regno ha stabilito un record giovedì [28 ottobre] di oltre 3 mila nuovi casi giornalieri di Covid-19” [9].
Il carismatico epidemiologo che coordina la sanità pubblica svedese, Anders Tegnell, continua a sostenere l’opportunità di quella che definisce “una strategia olistica” per il controllo della pandemia. Qualche risultato è stato ottenuto dal punto di vista economico – il prodotto interno lordo nazionale si è contratto “solo” del 6,8 per cento – e da quello del consenso dei cittadini, che sono d’accordo con le strategie messe in atto quasi per il 70 per cento [10]. Ma il costo umano del “modello svedese” sembra essere stato eccessivo.

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Autore Giada Savini (Pensiero Scientifico Editore)

Giada Savini è Web content editor in ambito medico-scientifico. Dopo gli studi classici e dopo aver collaborato con Medici Senza Frontiere onlus, ha abbracciato la carriera editoriale. Collabora con Il Pensiero Scientifico Editore, dove si occupa di medicina, salute e scienza.
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