Che domande, certo che sono diversi: cambia il nome, cambia l’azienda produttrice, cambia la confezione, talvolta è diverso anche l’aspetto. Ci riguarda tutto questo? Una cosa deve interessarci: che l’efficacia non cambia, perché l’effetto di un farmaco equivalente – preferiamo questo aggettivo – sui disturbi o sulla malattia di cui soffriamo è sovrapponibile al farmaco di marca che contiene lo stesso principio attivo. Ah, a dire il vero c’è anche un’altra cosa diversa tra il medicinale “griffato” e quello equivalente: il prezzo. Ma è una cosa di cui parleremo più avanti.
Cosa intendiamo con “principio attivo”?
È la sostanza che possiede un’attività biologica responsabile dell’effetto del farmaco, o meglio dei suoi effetti, perché a ogni principio attivo corrispondono diversi effetti. Altrimenti non sarebbe attivo, non è vero? Tra farmaci originali e farmaci equivalenti sia il principio attivo sia la preparazione farmaceutica sono analoghi.
La bioequivalenza fra il prodotto equivalente e quello originatore viene studiata in modo molto accurato per dimostrare che le differenze di biodisponibilità, osservabili tra due prodotti essenzialmente simili, non siano maggiori o minori di un intervallo prestabilito ritenuto compatibile con l’equivalenza terapeutica. Lo hanno spiegato i farmacologi curatori della rivista Dialogo sui farmaci e lo riportiamo anche se può apparire un po’ complesso: “Gli studi di bioequivalenza sono studi clinici randomizzati e controllati (RCT), generalmente cross-over in dose singola. Con tale disegno sperimentale i soggetti, che rappresentano un campione casuale della popolazione di interesse, ricevono le due formulazioni in periodi successivi. Il farmaco viene somministrato a un minimo di 12 volontari sani di età compresa tra i 18 e i 55 anni; nel caso in cui i rischi per i volontari sani siano elevati, gli studi vengono condotti sui pazienti” (Cordella L, et al. 2011). Talvolta, nel riferirsi a questi margini di variabilità si commette un errore, e cioè che le stime dei parametri ottenuti nelle prove di bioequivalenza, relative al rapporto fra equivalente e originatore, possano produrre differenze comprese fra ±20%. Non è così. Quello che deve essere compreso in questi limiti sono gli intervalli di confidenza delle stime ottenute nella popolazione sottoposta al test. Perché gli intervalli di confidenza siano contenuti in questo range, le due stime devono, di necessità, essere sovrapponibili. Se ad esempio con l’equivalente si raggiungessero livelli plasmatici inferiori di circa il 20% rispetto all’originatore, l’intervallo di confidenza andrebbe ben oltre questo limite e i due prodotti non sarebbero considerati equivalenti.
Ma se tra una compressa “originale” e la stessa compressa equivalente cambia la forma o l’aspetto è possibile sia stato modificato qualcosa di importante?
No, nulla di rilevante. Ma è possibile siano cambiati gli eccipienti. Queste sono sostanze neutre che servono a mantenere la stabilità di un prodotto. Per esempio, sono quegli elementi che contribuiscono a far sì che una compressa si sciolga più rapidamente nell’acqua. Gli eccipienti possono differire tra prodotti originatori e prodotti equivalenti, ma quello che a noi interessa è che la loro presenza non alteri il meccanismo di azione del medicinale. Qualsiasi differenza nell’uso di eccipienti utilizzati è però comunque segnalata nel Riassunto delle caratteristiche del prodotto e sul Foglio illustrativo all’interno della confezione. Questo permette al medico di farsi un’idea della compatibilità della prescrizione del farmaco equivalente rispetto alle caratteristiche della persona alla quale la prescrizione è rivolta e all’eventuale concomitante assunzione di altri prodotti farmaceutici.
Chi mi garantisce, però, che il farmaco equivalente sia davvero come quello originatore?
Come spiegava un dossier pubblicato sulla rivista dell’Agenzia italiana del farmaco, “tutte le fasi caratterizzanti il ciclo del farmaco e comprendenti la registrazione, il controllo di qualità pre-marketing e post-marketing e l’attività di farmacovigilanza sono condotte in Italia attraverso procedure di garanzia e conformità ai criteri recepiti e condivisi a livello europeo”. In altre parole, prima che sia messo in commercio un nuovo prodotto e dopo la sua commercializzazione l’attività di monitoraggio da parte delle istituzioni è molto attenta: non conviene a nessuno, del resto, che vengano scoperti medicinali inefficaci o peggio dannosi per la salute dei cittadini.
Però il farmaco di riferimento ha dovuto effettuare studi clinici su ciascuna delle indicazioni, mentre il farmaco generico sfrutta questo sapere senza dover effettuare nessuno studio di efficacia. Perché questa differenza?
“Scientificamente, non vi è nessun bisogno di ridimostrare tutto da capo”, spiega Armando Genazzani, professore di Farmacologia all’università del Piemonte orientale. “Per quanto riguarda invece la qualità del prodotto, non vi è nessuna differenza e le regole si applicano a tutti indistintamente. Tanto è vero che sono le medesime agenzie a rilasciare la stessa autorizzazione: in Italia l’AIC (Autorizzazione all’Immissione in Commercio). L’AIC non è legata al prezzo, e questo è importante ricordarlo.”
Se i farmaci “di marca” e i farmaci equivalenti sono davvero sovrapponibili, perché talvolta i secondi non possono essere prescritti ai pazienti che sono già in cura con un medicinale?
Per capirlo occorre fare una premessa: qualsiasi decisione – sia a livello di Servizio sanitario nazionale sia a livello di scelta da parte del medico curante – è presa sulla base dell’analisi dei risultati della ricerca. Almeno, così dovrebbe essere. E la ricerca sui farmaci è molto intensa. Anche su quelli equivalenti, le cui caratteristiche sono studiate con attenzione prima che vengano messi in commercio. Efficacia e sicurezza, già dimostrate dai corrispondenti farmaci originatori, sono valutate con gli studi di bioequivalenza. Con questi si verifica su tante persone se gli effetti dei medicinali sono equivalenti a quelli che otteniamo somministrando prodotti originatori. Talvolta, però, le caratteristiche individuali di una persona possono influenzare la risposta a una terapia farmacologica. Per questo, si preferisce – o si suggerisce – in alcuni casi specifici di non modificare la prescrizione da originatore a equivalente.
Il sito della associazione Altroconsumo offre un approfondimento molto utile su questo argomento. Per esempio, ecco il chiarimento sulle modalità di prescrizione di un medicinale equivalente: “Il medico, la prima volta che prescrive un farmaco a un paziente, deve indicare il nome del principio attivo. Può anche indicare, a fianco del principio attivo, il nome di un farmaco specifico (di marca o con nome generico). Per un paziente già in terapia cronica con un farmaco, invece, il medico può prescrivere in ricetta sia il principio attivo sia uno specifico farmaco (di marca o equivalente). Il farmacista, a sua volta, deve sempre informare il cittadino dell’esistenza del farmaco equivalente, se disponibile, e proporgli il farmaco equivalente meno costoso. C’è un solo caso in cui il medico può intervenire per impedire la sostituzione di un medicinale con un equivalente da parte del farmacista: quando, per valide ragioni cliniche, sempre da spiegare al cittadino, ritiene che il suo paziente debba continuare a usare un certo medicinale. In quel caso, il medico scriverà sulla ricetta il nome del medicinale e accanto la dicitura “non sostituibile”, giustificandola in breve” (Altroconsumo, 2016).
Prendo molti farmaci e ormai conosco tutte le forme e le compresse: cambiando rischierei di confondermi. Cosa posso fare?
È uno dei casi in cui il medico può decidere di continuare la terapia con lo stesso medicinale, sia esso originatore o equivalente. Capita soprattutto alle persone anziane e la cosa principale che va salvaguardata in casi del genere è la cosiddetta “aderenza alla terapia”, vale a dire evitare di indurre in errore il paziente, che può finire col dimenticare di assumere un farmaco o decidere di smettere di prenderlo (Kamerow, 2011).
Ancora una domanda dottore: ma è vero che i farmaci equivalenti sono pubblicizzati dal Servizio sanitario per una questione di risparmio?
È vero che il medicinale equivalente viene spesso percepito dai cittadini soprattutto come qualcosa di utile a limitare la spesa farmaceutica o, più in generale, per la salute. Anche se i cittadini sono sempre meglio informati e fiduciosi nei riguardi dei farmaci equivalenti (Kesselheim et al. 2016), il farmaco equivalente è visto da qualcuno con sospetto, come se il Ministero della Salute avesse deciso di ridurre la qualità dei medicinali rimborsati per contenere i costi delle prestazioni. Non c’è nulla di vero in questo. Gli equivalenti costano meno semplicemente perché sono medicinali in commercio da tanti anni e con brevetto ormai scaduto. Come spiega l’Agenzia italiana del farmaco, dal momento che dopo diversi anni le spese di ricerca sono state ormai ammortizzate, il prezzo del farmaco può essere inferiore. Riguardo la loro qualità, basti pensare che i farmaci equivalenti sono prodotti da industrie che, per fatturato e tecnologia, non hanno nulla a che invidiare alle aziende che producono i farmaci originatori. Anzi, non di rado uno stesso gruppo farmaceutico produce sia farmaci originatori sia equivalenti.
A ogni modo, preferire farmaci equivalenti al momento della prescrizione o dell’acquisto in farmacia libera risorse economiche utili a finanziare la spesa per terapie di nuova introduzione e ancora pesantemente gravate nel costo dei diritti brevettuali o dei costi di sviluppo. Senza contare che le risorse ottimizzate dal Servizio sanitario possono anche andare a supportare percorsi di riabilitazione, assistenza domiciliare, strategie di prevenzione. Quindi, i soldi eventualmente risparmiati vanno comunque a vantaggio di tutti noi.
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