Il diabete mellito è una malattia cronica che, come tale, non può guarire spontaneamente e, almeno per ora, nemmeno con i trattamenti disponibili. Le cure sono tuttavia molto migliorate nell’ultimo secolo, da quando il quattordicenne Leonard Thompson ricevette la prima iniezione di insulina estratta dal pancreas di un bovino e il suo medico, Frederick Banting, insieme ad altri tre ricercatori, ricevette il premio Nobel per la eccezionale scoperta [1].
Oggi l’insulina è prodotta in laboratorio in tante forme diverse e un ragazzino che riceve una diagnosi di diabete ha un’aspettativa di vita paragonabile a quella dei suoi coetanei, può praticare sport e si deve attenere a una dieta sana ed equilibrata, non restrittiva come quelle imposte un tempo.
Anche gli adulti che scoprono di avere il diabete possono fare molto per controllare la loro malattia e ridurre il rischio di complicazioni potenzialmente invalidanti, soprattutto a livello di nervi periferici e vasi sanguigni, o di eventi di cui questa può facilitare l’insorgenza come infarti e ictus.
Dottore, cos’è il diabete mellito?
Con il termine “diabete mellito” si intendono malattie croniche diverse, accomunate da un aumento della concentrazione di zucchero, il glucosio, nel sangue e, di conseguenza, nelle urine (da cui l’attributo “mellito”, da miele, per il sapore dolciastro che queste prendono). Ciò accade perché viene meno l’azione di un ormone prodotto dal pancreas, l’insulina, deputato, tra le altre cose, a favorire l’ingresso del glucosio nelle cellule, abbassandone così i livelli nel sangue.
Nel diabete di tipo 1, molto meno frequente nella popolazione generale e più comune tra bambini e giovani magri o normopeso, una reazione autoimmune verso le cellule beta del pancreas, che producono l’insulina, porta progressivamente alla loro distruzione e di conseguenza al calo fino alla scomparsa dell’ormone.
Nel diabete di tipo 2, invece, molto più diffuso nella popolazione adulta, soprattutto se obesa o sovrappeso – ma queste condizioni lo stanno rendendo non più così raro anche tra bambini e adolescenti – la produzione di insulina è normale o più spesso superiore alla norma, perché le cellule beta del pancreas cercano di compensare l’aumentata richiesta, ma i tessuti periferici diventano sempre meno sensibili allo stimolo dell’ormone, come se si abituassero e col tempo diventassero sordi ai suoi continui richiami. Per questo si parla di “resistenza all’insulina”.
Il processo è graduale e recentemente si è scoperto che in questi casi, soprattutto nelle fasi iniziali, un miglioramento degli stili di vita, con l’adesione a una dieta bilanciata e un incremento dell’attività fisica, può portare a una remissione della malattia. Questa, secondo gli esperti di Diabetes UK, American Diabetes Association e dell’European Association for the Study of Diabetes, si definisce dal ritorno nella norma dei livelli di glicemia e un calo sotto il 6,5% (o 48mmol/mol) dell’emoglobina glicosilata, in sigla HbA1c, indicatore dell’andamento della glicemia stessa nel tempo [2].
I medici, tuttavia, non parlano di guarigione, perché non si sa se questa condizione può resistere nel tempo. Sicuramente però è un ottimo obiettivo per chi vuole aumentare il proprio benessere, ridurre il consumo di farmaci e abbassare il rischio di complicazioni a medio e lungo termine.
Dottore, quindi non esistono cure innovative?
Vengono fatti enormi sforzi e investimenti verso la ricerca di cure per una malattia che nel mondo nel 2021 riguardava più di mezzo miliardo di persone, e che si stima nel 2050 ne colpirà più di 1,3 miliardi [3]. Gli ultimi dati hanno portato al rialzo questa stima, con oltre 800.000 persone che si ritiene fossero colpite dal diabete nel 2022. L’incremento è dovuto soprattutto al rapido e ingente aumento di casi registrato nei paesi a medio e basso reddito, dove stanno prendendo piede stili di vita tipici di paesi più ricchi, ma servizi sanitari inadeguati. Il costo dei trattamenti qui incide più che altrove sulla possibilità di cura [8].
Nei confronti del diabete di tipo 2, in particolare, sono entrate sul mercato diverse classi di farmaci, la più recente delle quali, capitanata da liraglutide e semaglutide, ha avuto un’enorme risonanza per la capacità di far perdere peso anche a persone non diabetiche, producendo moltissimi effetti benefici sulla salute e, per quanto se ne sa ora, pochi effetti indesiderati (tra cui una perdita di massa muscolare maggiore che con un dimagrimento perseguito con i metodi tradizionali). Il trattamento non produce comunque un cambiamento definitivo, quel che chiamiamo “guarigione”, ma deve essere assunto per sempre, talvolta in associazione ad altre medicine.
Il diabete di tipo 1 potrebbe invece essere in teoria curato con il trapianto di pancreas o delle sue aree contenenti cellule che producono insulina, dette “isole di Langerhans” (da cui appunto il nome “insulina”) [4]. Non si tratta tuttavia di trattamenti cui può essere sottoposto qualunque paziente, perché si tratta di procedure complesse che comportano un significativo rischio operatorio iniziale e devono essere seguite da una terapia immunosoppressiva che continua per tutta la vita.
È chiaro poi che anche dal punto di vista organizzativo ed economico operazioni così impegnative non possono essere di routine. Sebbene i risultati in termini di sopravvivenza e qualità di vita siano migliorati nel tempo, il numero di interventi è quindi andato calando, anche per le innovazioni che hanno facilitato il monitoraggio e la gestione della glicemia in maniera meno invasiva e pericolosa, senza passare dalla sala operatoria.
Dottore, in futuro cosa possiamo aspettarci?
Si è molto parlato negli scorsi mesi della donna che in Cina sarebbe stata curata con un trapianto di isole pancreatiche che tuttavia non provenivano da un donatore, ma erano state prodotte in laboratorio a partire dalle cellule staminali della paziente stessa. Questo approccio sarebbe in teoria da preferire perché da un lato aggira le difficoltà legate alla raccolta degli organi, dall’altro evita il rischio di rigetto e quindi la necessità di restare per tutta la vita con le difese compromesse.
Nel loro studio pubblicato sulla rivista Cell i ricercatori dell’Università Nankai di Tientsin hanno riferito che a distanza di un anno dall’intervento la donna sta bene, senza segni di ripresa della malattia. Si tratta quindi di un esperimento interessante e promettente, ma che dovrà essere ripetuto in altri contesti e su diversi pazienti prima che si possa pensare a una sua diffusione su larga scala [5].
Intanto sono in arrivo farmaci che sembrano in grado di rallentare la distruzione delle isole di Langerhans quando il diabete di tipo 1 è diagnosticato in fase precoce, per cui il pancreas possiede ancora la capacità di produrre una, pur ridotta, quantità di insulina.
Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration ha approvato un anticorpo monoclonale, teplizumab, che ha allungato in media il tempo libero dalla malattia e ridotto il rischio di svilupparla in una quarantina di bambini con un familiare affetto da diabete di tipo 1, rispetto a una trentina di controlli assegnati al placebo [6]. Non si tratta tuttavia di un prodotto privo di effetti indesiderati, il cui costo pare aggirarsi sui 193.000 dollari a ciclo e che, in ogni caso, non rappresenta una cura definitiva [7].
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