Gli asintomatici possono definirsi sani?

16 Dicembre 2020 di Giada Savini (Pensiero Scientifico Editore)

Quello degli asintomatici è un argomento che desta molta inquietudine: possono definirsi sani? Quante sono le persone che non manifestano sintomi dopo essere state infettate dal SARS-CoV-2? Qual è il loro ruolo nella trasmissione di Covid-19? Sono domande molto importanti a cui la comunità scientifica sta cercando di dare risposta, poiché stimare la relazione tra la diffusione del virus e le persone contagiate ma asintomatiche non è facile. “La difficoltà di stabilire una cifra affidabile del tasso di Covid-19 asintomatico sta nella non facile possibilità di distinguere tra persone asintomatiche e persone presintomatiche” afferma Krutika Kuppalli, infettivologa della Medical University of South Carolina in Charleston, in un approfondimento di poche settimane fa della prestigiosa rivista scientifica Nature [1].

Prima di procedere oltre, una precisazione: con il termine “tasso” ci riferiamo al rapporto tra il numero di eventi registrati in una popolazione (al numeratore, in alto nella frazione) e il numero totale delle persone che compongono quella stessa popolazione (al denominatore, in basso nella frazione).

Dottore, che differenza c’è tra asintomatici e presintomatici?

“Asintomatico è chi non ha mai sviluppato sintomi durante tutto il corso della malattia, mentre presintomatico è chi ha sintomi lievi prima di sviluppare i sintomi veri e propri”, spiega Kuppalli [1]. Della stessa opinione anche Daniel P. Oran ed Eric J. Topol – quest’ultimo recentissimo ospite della trasmissione Che tempo che fa e ricercatore di fama internazionale dello Scripps Research Translational Institute, uno dei più grandi centri di ricerca in discipline biomediche al mondo. Oran e Topol spiegano come sia “spesso impossibile distinguere gli asintomatici dai presintomatici, futuri malati che potrebbero essere identificati solo attraverso osservazioni dell’individuo ripetute nel tempo” [2]. Pertanto, in attesa di studi più rigorosi, Eric Topol ha sottolineato in un tweet che “l’uso delle mascherine indossate in tutte le occasioni di vicinanza fisica con altre persone sia l’unico efficace freno all’epidemia, finché non sarà possibile sottoporre ad un test tutta la popolazione” [3].

Quante probabilità ho di incontrare una persona asintomatica?

Come detto in precedenza, stabilire con precisione il numero di asintomatici, cioè di persone infette ma che non manifestano sintomi di Covid-19, è molto difficile e di conseguenza è complicato anche definire le probabilità di entrarvi in contatto. Gli studi svolti suggeriscono che circa una su cinque tra le persone infette non avverte alcun sintomo e può trasmettere il virus. Sembra però che possa contagiare un numero significativamente inferiore di persone rispetto a chi ha dei sintomi. Dobbiamo dire, però, che i ricercatori non sono tutti d’accordo sul fatto che le infezioni asintomatiche agiscano o meno come “motore silenzioso” della pandemia. La conoscenza di questi aspetti fondamentali della malattie sta aumentando ma, in attesa di saperne di più, c’è un sostanziale accordo su una cosa: “le persone devono continuare a utilizzare misure protettive per ridurre la diffusione virale”, indipendentemente dal fatto che presentino o meno i sintomi [1].

“La probabilità di incontrare un soggetto asintomatico positivo che neppure lui sa di esserlo è tutt’altro che bassa e quindi è indispensabile che si utilizzino tutte le misure precauzionali che conosciamo” sostiene Cesare Cislaghi, già presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, in una recente analisi [4]. “Non dobbiamo affidarci fideisticamente alla sola casualità, dato che questa non è assolutamente minima come magari siamo inclini a pensare o come vorremmo poter credere”, conclude Cislaghi [4].

Dottore, possiamo indicare dei numeri?

Poche settimane fa è stata pubblicata dalla Association of Medical Microbiology and Infectious Disease canadese un’importante sintesi di studi sull’argomento (una meta-analisi) condotta da Oyungerel Byambasuren e colleghi – tra cui anche Paul Glasziou, direttore dell’Institute for evidence-based healthcare della Bond University in Australia. Erano considerati e sintetizzati i risultati di 13 studi che hanno coinvolto oltre 20 mila persone: il tasso di casi asintomatici era del 17% [5]. Nell’analisi, gli asintomatici sono state definiti come quelle persone che non hanno mostrato nessuno dei sintomi chiave di Covid-19 per almeno sette giorni. Inoltre, la revisione dei ricercatori della Bond University ha rilevato che gli individui asintomatici avevano il 42% in meno di probabilità di trasmettere il virus rispetto alle persone sintomatiche [1].

“Sebbene vi sia un minor rischio di trasmissione da persone asintomatiche, [queste] potrebbero comunque rappresentare un rischio significativo per la salute pubblica perché hanno maggiori probabilità di circolare liberamente senza essere isolate a casa”, afferma Andrew Azman, epidemiologo esperto di malattie infettive presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora. Azman è coautore di un ampio studio condotto sulla popolazione di Ginevra, in cui leggiamo “che il rischio che una persona asintomatica trasmetta il virus ad altri in casa è pari a circa un quarto del rischio di trasmissione da una persona sintomatica” [1].

In realtà “nessuno sa esattamente quanti casi di Covid-19 provengano da diffusione asintomatica” scriveva Monica Gandhi, infettivologa e ricercatrice presso l’Università della California, lo scorso giugno su The Conversation [6]. “Ma io e molti altri ricercatori sulle malattie infettive siamo convinti che stia giocando un ruolo importante in questa pandemia. Indossare una maschera e praticare il distanziamento sociale può prevenire la diffusione asintomatica e aiutare a ridurre i danni causati da questo pericoloso virus fino a quando non otterremo un vaccino” [6].

Quindi è possibile essere contagiosi senza sapere di essere malati?

Uno studio condotto da Gabriel Leung e colleghi, dell’Università di Hong Kong, e pubblicato sulla rivista Nature Medicine, ha rilevato “la più alta carica virale nei tamponi faringei al momento della comparsa dei sintomi” suggerendo che i pazienti siano più contagiosi proprio poco prima o nel momento in cui i sintomi hanno iniziato a manifestarsi [7,8]. Un altro studio, pubblicato su una rivista del gruppo editoriale The Lancet, ha messo in evidenza che la carica virale era “più alta durante la prima settimana dopo l’insorgenza dei sintomi e successivamente è diminuita con il tempo” [7,9].

Gli autori di questo studio hanno notato che questo “comportamento” contrastava con quello di un’altra patologia causata da coronavirus, la Sars, dove il picco di carica virale era a circa 10 giorni dall’esordio, e con la MERS, altra patologia da coronavirus, che sembra avere la massima carica virale alla seconda settimana dopo la comparsa dei sintomi. Il “profilo di carica virale” di Covid-19 sembra in realtà essere più simile all’influenza, hanno scritto gli autori dello studio, in quanto “raggiunge il picco intorno al momento della comparsa dei sintomi”.
Va ribadito che si ritiene che la carica virale sia correlata alla capacità di un paziente di infettare gli altri, e quando il picco si verifica più tardi durante il corso della malattia, è più probabile che un paziente abbia già cercato cure, sia stato sottoposto a test e abbia iniziato il trattamento o ricevuto istruzioni per rimanere isolato [7].

L’elevata carica virale nelle prime fasi del decorso della malattia per i pazienti con Covid-19 – scrivono gli autori dello studio pubblicato sul Lancet Infectious Diseases “suggerisce che [il virus] può essere trasmesso facilmente, anche quando i sintomi sono relativamente lievi” [7].

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Autore Giada Savini (Pensiero Scientifico Editore)

Giada Savini è Web content editor in ambito medico-scientifico. Dopo gli studi classici e dopo aver collaborato con Medici Senza Frontiere onlus, ha abbracciato la carriera editoriale. Collabora con Il Pensiero Scientifico Editore, dove si occupa di medicina, salute e scienza.
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