(Parlando oggi, fra noi, di Giorgio Bert)
Il progetto Dottore ma è vero che? è nato anche con l’obiettivo di suggerire ai propri lettori di non dare troppo credito alle opinioni degli “esperti”, soprattutto di quelli che tali si accreditano senza averne merito, o alle notizie rilanciate dai media che non si basino sui risultati di studi disegnati e condotti con metodi rigorosi. Come si suol dire, è un approccio basato sulle prove: per carità, nulla di particolarmente nuovo, al punto che quasi trent’anni fa – per cercare di capire l’efficacia di una cura, o un vaccino, o qualsiasi altro intervento sanitario – fu proposta una sorta di piramide che definiva una gerarchia dell’affidabilità delle fonti, dalle meno credibili – in basso – alle più attendibili – in alto.
Col tempo, tutte le piramidi – anche se non crollano e restano là a ricordarci la loro importanza – perdono pezzi. Anche quella della “gerarchia delle prove” è stata riveduta, ripensata, ricostruita fino a una più recente – ma certamente non ultima – versione: le fonti più credibili sono quelle che ti avvertono di poter avere torto. Ancora più affidabili di quelle che stanno sul gradino di sotto e che ti dicono che non loro stesse, ma l’informazione che stanno valutando e proponendo potrebbe essere sbagliata. Qualcuno penserà che si tratta di sottigliezze: eppure, in un mondo pieno di incertezze frettolosamente nascoste sotto al tappeto, saper guardare con occhio critico non solo “le cose” ma anche sé stessi in rapporto a esse è una qualità rara e invidiabile. Anzi, può essere la malta che tiene più saldamente insieme le pietre, e rende l’edificio della consapevolezza più abitabile e sicuro.
Il 29 gennaio 2022 abbiamo perso una persona che aveva questa dote ed era stata capace lungo tutta la propria vita di guardare la realtà con un occhio pieno di empatia e allo stesso tempo di disincanto. La morte di Giorgio Bert forse non ha sorpreso i suoi amici ma li ha colti comunque impreparati, come può esserlo chi da decenni confida nella capacità di interpretazione, valutazione, riflessione di un maestro su cui sai di poter sempre contare.
Laureato in Medicina nel 1958, Giorgio Bert iniziò a lavorare come medico e ricercatore all’università di Torino. In un’Italia attraversata da conflitti sempre più aspri – economici, sociali, culturali e generazionali – decise di abbandonare “l’accademia” diventando parte di uno dei gruppi di clinici e ricercatori più attivi nel lavoro di analisi e progettazione della nuova sanità italiana, che avrebbe contribuito all’elaborazione della legge di riforma sanitaria del 1978. Segnato dalla propria esperienza accademica (“Mi ha deluso la deriva anti-culturale dell’università, che infatti ho lasciato in anticipo”), una delle questioni al centro della sua riflessione diventava proprio il percorso di formazione del medico: “Il problema è quello di preparare dei medici che sappiano e possano denunciare e intervenire, al di fuori del semplice atto terapeutico” scriveva. Conoscenza (“sapere”) e libertà (“potere”) erano le due condizioni per essere medico: ma non erano queste – e non sono ancora oggi – condizioni del diritto di cittadinanza?
Per questo, la riflessione e il lavoro culturale di Giorgio Bert lo hanno portato a radicare il proprio pensiero in uno sguardo sistemico sulla salute e sulla condizione di malattia. Detta così potrebbe sembrare una cosa complicata, e allora conviene farcela spiegare proprio da Giorgio, quando – con parole sue – sosteneva l’importanza del… mercato.
Non quello tanto vituperato, di questi tempi, di farmaci e similari. Proprio il mercato come luogo fisico, con i suoi odori, i rumori, e soprattutto le voci. “È uno dei luoghi che uno studente, ma anche un medico, dovrebbe frequentare con regolarità, munito magari di registratore. Ascoltate le narrazioni, le chiacchiere che le o i clienti scambiano tra loro o con i commercianti: noterete che una vasta maggioranza di esse riguarda la salute o meglio la malattia: ‘Mia suocera è di nuovo in ospedale, la operano domani’. ‘Mio marito i pomodori proprio non li digerisce’. ‘Vorrei un formaggio magro, sono a dieta’. ‘Quel dolore è aumentato ancora e il dottore non capisce’. ‘Mi hanno sbagliato la cura’. ‘Ha provato a prendere la tal cosa?’. ‘Secondo me è il fegato…’.
Al mercato si scambiano diagnosi, prescrizioni, consigli, diete; al mercato si impara e si insegna come gestire ogni tipo di malessere, debitamente trasformato in malattia con la sua brava diagnosi e il farmaco più efficace. Al mercato si danno giudizi su medici, specialisti, ospedali con annesso Pronto soccorso, liste d’attesa, trucchi per evitarle. Al mercato si apprende cosa è meglio dire e non dire al medico: ‘Io prendo un rimedio omeopatico ma al dottore mica lo dico, si arrabbierebbe di quel tanto…’. ‘Quella medicina mi fa malissimo, ma quando l’ho detto al mio medico mi ha sgridato, così non la prendo e basta…’ È questa la voce della vita, che nell’ambulatorio medico risuona di rado, spesso sovrastata dalla voce della medicina. È al mercato, o comunque fuori, nel mondo, che si può scoprire cosa significano per le persone salute e malattia.”
Ecco, la voce della vita. Quella che raramente – o solo distrattamente – ascoltiamo quando sentiamo parlare di medicina. E che ci piacerebbe trasparisse, come in filigrana, nel lavoro che proponiamo a chi segue il nostro progetto.
Luca De Fiore
Cosimo Nume
Rosa Revellino