Il trattamento psichedelico con psilocibina (un principio attivo presente nei cosiddetti “funghi magici”) sembra riuscire a rendere meno pesanti i sintomi del disturbo depressivo maggiore negli adulti.
Cos’è la psilocibina?
La psilocibina è una sostanza estratta da funghi che crescono in zone tropicali e subtropicali del Sud America, del Messico e degli Stati Uniti. Secondo il National Institute on Drug Abuse statunitense – che propone a chi conosce la lingua inglese una panoramica molto informativa [1] – può produrre cambiamenti percettivi, alterando la consapevolezza dell’ambiente circostante e dei propri pensieri e sentimenti. Gli allucinogeni classici possono far sì che i consumatori vedano immagini, sentano suoni e provino sensazioni che sembrano reali ma che non lo sono. Gli effetti iniziano generalmente entro 20-90 minuti e possono durare fino a 12 ore in alcuni casi (LSD) o fino a 15 minuti in altri.
Negli ultimi anni la ricerca sull’uso terapeutico di queste sostanze è proseguita e, in uno studio che ha seguito le persone arruolate nella sperimentazione per un periodo più lungo rispetto a quanto avvenuto in precedenti ricerche, sembra che gli effetti positivi del trattamento possano permanere in alcuni pazienti almeno per un anno [2].
Dottore, trattare con allucinogeni i disturbi psichici come la depressione è dunque una novità?
In realtà, si tratta di una ricerca portata avanti già negli anni Cinquanta del secolo scorso. Negli anni Sessanta, poi, lo psichiatra Jan Bastiaans che lavorava all’Università di Lovanio in Belgio trattava la cosiddetta “sindrome da campo di concentramento” con sostanze psichedeliche come LSD e psilocibina, nella convinzione che queste sostanze fossero capaci di “aprire la mente” di chi aveva vissuto il dramma dell’internamento nei lager al punto da poterli “liberare” [3]. Altri psichiatri e agenzie regolatorie dei medicinali ritenevano che la terapia fosse troppo pericolosa, anche se riconoscevano un potenziale terapeutico. Nonostante le critiche, Bastiaans continuò a trattare i pazienti con sostanze psichedeliche fino al suo pensionamento nel 1985, ma a quel punto sembrava che le sue convinzioni non fossero più condivise da nessun altro psichiatra a livello internazionale. In seguito, negli anni Novanta, alcuni ricercatori hanno iniziato a studiare con cautela l’effetto di sostanze come l’LSD, l’MDMA e la stessa psilocibina in patologie psichiatriche come la depressione e il disturbo post-traumatico da stress [4].
Negli ultimi anni gli studi sono ripresi e si è tornato insistentemente a parlare dell’uso terapeutico di queste sostanze [5]. Le evidenze, infatti, sono così promettenti da avere indotto la Food and Drug Administration (FDA) – l’ente che regola le registrazioni e le approvazioni dei medicinali negli Stati Uniti – a designare entrambi i trattamenti come terapie innovative (“breakthrough”), uno status prioritario attribuito a farmaci progettati per soddisfare un bisogno insoddisfatto [4]. L’azienda che sviluppa il farmaco definito come “breakthrough” riceve un supporto continuo dalla FDA durante tutto il processo di sperimentazione clinica e la priorità nella revisione quando i dati sono disponibili. La 3,4-metilenediossimetanfetamina (abbreviata in MDMA, ma conosciuta anche come ecstasy) ha ricevuto lo status di terapia innovativa per il trattamento della sindrome post-traumatica da stress, mentre la psilocibina ha ricevuto la designazione per il trattamento della depressione resistente al trattamento con altri psicofarmaci o terapie psicologiche.
Come agisce la psilocibina?
Bisogna premettere che la ricerca sugli psicofarmaci è tradizionalmente condizionata dalla conoscenza imperfetta del funzionamento del cervello umano. Questo ha portato a valutare molti medicinali a partire da dati empirici di efficacia piuttosto che da un razionale che spiegasse l’azione dei principi attivi sul sistema nervoso. La psilocibina sembra agire sui recettori della serotonina, un ormone la cui presenza in maggiori o minori quantità influenza il nostro umore riducendo ansia e aggressività, ma i ricercatori che l’hanno studiata maggiormente sostengono che l’impatto della sostanza vada ben oltre la sua azione sulla serotonina. Si ritiene infatti che possa alterare il modo in cui i neuroni si connettono tra loro. Il sito del National Institute on Drug Abuse [1] scrive che “gli allucinogeni classici funzionano almeno in parte interrompendo temporaneamente la comunicazione tra i sistemi chimici cerebrali in tutto il cervello e il midollo spinale”: come vediamo, è una descrizione capace di soddisfare solo in parte la nostra legittima curiosità.
Questi trattamenti porteranno a un cambiamento radicale nella cura dei disturbi depressivi?
È molto presto per dirlo. “Si tratta di un approccio terapeutico promettente che può portare a miglioramenti significativi e duraturi della depressione”, ha spiegato Natalie Gukasyan, psichiatra della Johns Hopkins University e prima firma dello studio pubblicato lo scorso anno che abbiamo già citato in precedenza [2]. Gukasyan avverte però che “i risultati che vediamo sono stati ottenuti in un contesto di ricerca”. Trasferire i risultati degli studi sperimentali alla pratica clinica è un processo complesso: per esempio, proprio le caratteristiche dello studio della Johns Hopkins mostrano quanta distanza possa esserci tra l’ambito in cui si svolge la ricerca e il mondo reale.
Può spiegarmi meglio?
Consideriamo in primo luogo le “dimensioni del campione”: i ricercatori hanno reclutato solo 27 partecipanti con una storia di depressione di lunga data, la maggior parte dei quali aveva manifestato sintomi depressivi per circa due anni prima di essere coinvolta nello studio. L’età media dei partecipanti era di 40 anni. L’88% dei partecipanti aveva assunto nel corso degli anni farmaci antidepressivi e il 58% aveva riferito di aver usato antidepressivi negli episodi depressivi più recenti. Dopo la valutazione iniziale, i partecipanti sono stati divisi casualmente (randomizzati) in uno dei due gruppi destinati a ricevere l’intervento immediatamente o dopo un periodo di attesa di otto settimane. Al momento del trattamento, tutti i partecipanti hanno avuto a disposizione da sei a otto ore di incontri preparatori con due persone che avrebbero dovuto supportarli nel trattamento (i cosiddetti “facilitatori”). Dopo la preparazione, i partecipanti hanno ricevuto due dosi di psilocibina, somministrate a distanza di circa due settimane l’una dall’altra tra l’agosto 2017 e l’aprile 2019 presso il Behavioral Biology Research Center del Johns Hopkins Bayview Medical Center. I partecipanti sono tornati per il follow-up di una giornata una settimana dopo ogni sessione, e poi a uno, tre, sei e dodici mesi dalla seconda sessione; 24 partecipanti hanno completato entrambe le sessioni di psilocibina e tutte le visite di valutazione di follow-up.
Capisco, un programma complesso di terapia: ma quali sono stati i risultati?
I ricercatori hanno riferito che il trattamento con psilocibina in entrambi i gruppi ha prodotto una forte riduzione della gravità della depressione – misurata con una scala molto usata a livello internazionale, la Hamilton Scale – e che questo risultato è stato mantenuto a distanza di uno, tre, sei e dodici mesi dopo il trattamento. Tra le cose più importanti da sottolineare è dunque la necessità di un’équipe di professionisti molto preparati e qualificati: non è assolutamente possibile che i pazienti provino a “curarsi da soli”…
Infatti, prima di ricevere qualsiasi dose di queste sostanze il paziente incontra uno o due terapeuti o guide – non necessariamente medici o psichiatri – addestrati per aiutarlo ad affrontare l’esperienza [4]. Questi esperti spiegheranno come funzioneranno le sessioni di trattamento e discuteranno i problemi e gli obiettivi dell’individuo. Le sostanze psichedeliche di solito impiegano dai 20 ai 40 minuti per fare effetto, che prosegue per circa sei ore. Durante questo tempo alcuni pazienti ascoltano musica o parlano con i terapeuti. Molti reagiscono provando una sensazione di rilassamento, altri hanno allucinazioni. I terapeuti sono formati per aiutare i pazienti a gestire qualsiasi paura o paranoia che si presenti. Un regime di trattamento può comprendere uno o più giorni di somministrazione.
Se si è seguiti dal medico, già ci si può “curare” con queste sostanze?
No: si tratta di sostanze ancora illegali in attesa di risultati che possano indurre la FDA e altre agenzie regolatorie ad approvare i trattamenti. Ad oggi, in diversi Paesi del mondo si stanno conducendo decine di studi che intendono valutare l’efficacia di psilocibina e altre sostanze non solo nella terapia della depressione ma anche in altri disturbi psichiatrici [7]. Nonostante i punti di vista incoraggianti dei ricercatori di centri come la Johns Hopkins, molti altri psichiatri sono prudenti: per esempio, in un commento pubblicato sul sito del New England Journal of Medicine – una delle riviste scientifiche più note al mondo – si faceva presente che l’obiettivo della ricerca clinica in questo momento non dovrebbe essere la “approvazione” di queste sostanze da parte delle agenzie regolatorie: l’obiettivo dovrebbe essere “quello di cercare di informare il medico per aiutarlo a decidere se questa soluzione è efficace o meno per il suo paziente. […] Al momento, molte delle prove accumulate nel corso di decenni sono costituite da piccoli numeri di casi clinici o serie di casi, e non sono molto persuasive. Abbiamo bisogno di studi clinici di buona qualità.” E purtroppo intorno a questo argomento c’è ancora troppa enfasi: studi rigorosi su popolazioni di pazienti ampie non hanno ancora confermato l’ottimismo di alcuni psichiatri [8].