Domanda a cui è difficile rispondere. Se la domanda fosse stata “È più sicuro curarsi in un ospedale che assiste ogni anno un elevato numero di pazienti?” sarebbe stato più facile rispondere: sì, è più sicuro. Sappiamo infatti che quanti più interventi o prestazioni di uno stesso tipo vengono effettuati in una stessa struttura, tanto migliore è l’esito (vale a dire il risultato) delle cure [1].
I risultati delle cure sono migliori per tutte le malattie o solo per alcune?
Facciamo un passo indietro. Non solo in Italia ma in tutto il mondo da diversi anni si studiano i risultati dell’assistenza sanitaria prestata – o come si suol dire in linguaggio tecnico, “erogata” – nelle strutture ospedaliere. Questo soprattutto perché diverse ricerche hanno notato una differenza negli esiti delle cure e questa disomogeneità è stata associata non tanto alla “grandezza” di un ospedale, quanto a quello che si definisce “volume di attività”: vale a dire, la numerosità delle prestazioni che in quella struttura sono effettuate. Questo vale soprattutto per tipologie omogenee di prestazioni: per esempio, interventi di chirurgia ortopedica per la sostituzione dell’anca con una protesi o – sempre restando all’ambito chirurgico – interventi per la rimozione della colecisti. Ma i benefici che può promettere l’essere assistiti in un ospedale molto attivo non si limitano alle prestazioni chirurgiche. Anche il trattamento dell’infarto miocardico acuto, infatti, dà risultati migliori se il paziente viene ricoverato in una struttura a “più elevati volumi di attività”.
In uno studio condotto nell’ambito del Programma nazionale esiti, nel campo della chirurgia oncologica si è osservata un’associazione positiva tra riduzione della mortalità ospedaliera o a 30 giorni e alto volume ospedaliero, per 11 ambiti studiati su 14 (tumori di colon, colon retto, esofago, fegato, mammella, pancreas, polmone, prostata, rene, stomaco e vescica). Per quanto riguarda la cardiologia e la chirurgia vascolare, si è osservata un’associazione positiva tra volume ospedaliero alto e riduzione della mortalità ospedaliera o a 30 giorni per 10 sui 12 interventi valutati [1].
Accade solo in Italia che gli ospedali più “attivi” siano più sicuri?
È qualcosa che si osserva in tutti i Paesi del mondo. Uno studio molto ampio condotto negli Stati Uniti, per esempio, conferma i dati italiani [2]. È anche interessante vedere come le differenze tra le nazioni siano minori delle diversità negli esiti per volume di attività: in altre parole, gli ospedali che assistono molti malati hanno risultati migliori sia che siano negli Stati Uniti, sia che abbiano sede in Gran Bretagna [3].
I piccoli ospedali, però, sono – come dire – più accoglienti…
In alcuni casi possono essere percepiti in questo modo. Fermo restando – come detto in precedenza – che il problema non è nella “dimensione” della struttura quanto nell’insieme dell’attività che svolgono i reparti e nell’esperienza che, attraverso, questo “volume” di attività, lo staff riesce a maturare. Prendiamo il caso, per esempio, di “piccoli” ospedali specializzati nell’assistenza alla maternità o di strutture di “piccole” dimensioni in città prossime a stazioni sciistiche, che raggiungono ugualmente un elevato livello di qualità nell’assistenza come conseguenza della specializzazione.
Come scriveva una grande personalità della sanità pubblica internazionale, Avedis Donabedian, è innegabile che alcuni fattori che talvolta si definiscono “alberghieri” si aggiungano agli aspetti desiderabili della relazione medico-paziente: la convenienza in termini di vicinanza dell’ospedale con il domicilio, la riservatezza, il comfort, la tranquillità, la disponibilità di un ampio parcheggio – magari non a pagamento: elementi che possono contribuire a rendere l’esperienza del ricovero meno pesante o sgradevole. Ma dovremmo sempre vigilare rispetto all’eventualità che un contesto accattivante “possa mascherare, o persino sostituire, le carenze dell’assistenza tecnica, poiché ci si aspetta che i pazienti apprezzino facilmente i primi e ne siano gratificati mentre sarà meno probabile che riescano a comprendere e apprezzare le seconde” [4].
Come si fa, però, a stabilire se le cure prestate sono di maggiore o minore qualità?
Giusta domanda: si usano degli “indicatori” determinati sulla base degli studi effettuati nel mondo. Facciamo qualche esempio, per spiegarci meglio, andando a vedere cosa è accaduto nella Regione Lazio, che è stata quella che ha fatto registrare la migliore performance di crescita nell’adempiere a quanto previsto dai Livelli essenziali di assistenza. Nel 2017 i pazienti con infarto acuto del miocardio che riuscivano a essere trattati tempestivamente con l’angioplastica sono stati il 50% del totale, mentre nel 2012 solo il 28% riusciva a beneficiare di questo essenziale intervento terapeutico. Ancora: il 54% dei pazienti con una frattura al femore è stato operato entro due giorni, mentre nel 2012 erano solo il 31%. Riguardo invece la maternità, il tasso di cesarei – che sappiamo essere un intervento molto spesso non necessario – è stato del 27%, contro il 31% di cinque anni prima.
In definitiva, la sanità pubblica si impegna diffusamente a migliorare e molto spesso ottiene risultati soddisfacenti. Purtroppo, però, a volte sono messi in secondo piano dall’apparenza di strutture ospedaliere o ambulatoriali trascurate nell’aspetto o da campagne dei media che tendono a mettere in evidenza soprattutto ciò che non va, invece di sottolineare le eccellenze del Servizio sanitario nazionale.
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