Babbo Natale non esiste?

24 Dicembre 2019 di Roberta Villa

La temuta domanda su chi sia Babbo Natale viene rivolta a tutti i genitori, prima o poi, o ad altri adulti di riferimento, tra cui potrebbe esserci anche il pediatra. Come rispondere? Ma prima ancora: è corretto alimentare nei bambini questa credenza? Non si tratta di questioni banali. Sono temi che vanno al di là del Natale, perché riguardano la percezione del reale e dell’immaginario da parte del bambino, il suo sviluppo, il rapporto di fiducia con i genitori. Se ne è quindi occupata molto anche la scienza, in particolare nel campo della psicologia, delle neuroscienze, della pedagogia [1].

Quanto è diffusa la tradizione di Babbo Natale?

I dati relativi alla credenza in Babbo Natale vengono dagli Stati Uniti: i più recenti si riferiscono a un’indagine condotta su 4.580 americani, a cui è stato chiesto se avevano mai creduto al vecchio con la barba, e quando ne avevano scoperto il mistero. Pur con qualche differenza da Stato a Stato, si può dire che in media più di 9 adulti su 10 si sono cullati, almeno da piccoli, in questa fantasia [2]; un dato leggermente superiore a quello registrato nel 2011 dall’Associated Press con interviste telefoniche a un migliaio di adulti: su 1.000 intervistati, l’84% aveva dichiarato di averci creduto, almeno per un po’ [3]. Il dato è coerente con quello registrato sui bambini in passato, alla fine degli anni Settanta, quando è stato associato in maniera diretta anche all’età: a 4 anni credeva a Babbo Natale l’85% degli intervistati, a 6 il 65%, a 8 il 25% [4].

In Italia, come in altre culture mediterranee, indagini di questo tipo sono più complesse da svolgere: il misterioso arrivo dei regali per i bambini può far riferimento a diverse tradizioni, religiose o no, per cui a portare i doni potevano – e possono essere ancora oggi – Santa Lucia il 13 dicembre, Gesù Bambino a Natale oppure Befana o Re Magi il giorno dell’Epifania. L’iconografia oggi dominante ha cominciato a prendere piede da noi solo nel secondo dopoguerra, insieme alla pubblicità della Coca Cola che negli anni Trenta ha cristallizzato nella forma attuale sembianze e abbigliamento del santo di origine turca (Santa Claus o San Nicola), incaricato di portare i doni ai bambini nelle culture anglosassoni e del nord Europa.

Con l’intenso sfruttamento commerciale delle festività natalizie, sempre più svuotate del loro significato religioso, e il prolungamento del periodo in cui la loro simbologia è utilizzata per incrementare i consumi, anche i bambini italiani sono sempre più esposti a Babbo Natale e al suo mito. Si moltiplicano – nelle scuole, nelle case, nei negozi e nei parchi – gli incontri col vecchio in carne e ossa. Al contrario di quel che si potrebbe pensare, lungi dal creare più dubbi e mettere in discussione la coerenza della narrazione, è stato dimostrato che vedere e toccare la figura di fantasia ne aumenta la credibilità [5].

Perché crediamo a Babbo Natale?

In un saggio del 1995 in cui invitava i lettori ad adottare uno sguardo critico sulla realtà, lo scrittore scettico Richard Dawkins usò la favola di Babbo Natale come esempio della creduloneria dei bambini, da superare una volta diventati adulti. Secondo la sua teoria, i piccoli sono naturalmente più ingenui e per ragioni evolutive devono credere a quel che i grandi raccontano loro: solo così possono ereditare l’enorme patrimonio di conoscenza delle generazioni precedenti, ed evitare rischi potenzialmente letali. Per la stessa ragione, tuttavia, non bisognerebbe abusare della loro fiducia e non si dovrebbero trarre in inganno con storie e favolette, a meno di sfruttare il mito per stimolare la loro capacità critica e insegnare loro a non fidarsi di nessuno, nemmeno dei genitori [6].

Anche per il grande pedagogo svizzero Jean Piaget, i bambini avrebbero difficoltà a distinguere tra reale e fantastico, aderendo al cosiddetto “pensiero magico” anche fino ai 10-12 anni; solo dopo, entrando nell’età adulta, imparano a riconoscere vero e falso. La psicologia moderna anticipa però ai 3-4 anni l’età in cui si inizia a imparare a distinguere verità e fantasia, in un processo che in genere si compie intorno ai 7-8, età verso cui la maggior parte dei bambini scopre anche chi è Babbo Natale [7].

Per Jacqueline D. Woolley, a capo del Dipartimento di psicologia dell’Università del Texas a Austin, però, i bambini non sono affatto più ingenui e creduloni degli adulti. I grandi infatti non aspetteranno Babbo Natale, ma cadono facilmente nel “pensiero magico” che guida piccole e grandi superstizioni e credono a bufale non molto più verosimili del vecchio con la barba bianca che si introduce in casa per portare i regali. D’altro canto, si riconoscono nei bambini, anche piccoli, gli stessi criteri di giudizio che vengono raccomandati oggi per giudicare la verosimiglianza di una notizia: la presenza di prove e l’attendibilità delle fonti, per esempio [8].

Per arrivare a queste conclusioni, il gruppo della ricercatrice – una delle più attive su questo tema – ha indagato il rapporto dei bambini con Babbo Natale, con altre figure immaginarie tradizionali come la fatina dei denti, o con altre appositamente inventate per la realizzazione degli esperimenti. In altre ricerche gli studiosi americani hanno approfondito la capacità di distinguere tra draghi e dinosauri, cavalieri medioevali o supereroi dei fumetti oppure di definire l’attendibilità dei discorsi degli adulti [9]. Se i bambini credono, concludono i ricercatori, è soprattutto perché i grandi – in particolare i genitori, che per un bambino sono o dovrebbero essere “gli esperti”, la fonte più attendibile di informazione – non solo sostengono con convinzione l’interpretazione soprannaturale della comparsa dei doni sotto l’albero, ma si danno anche incredibilmente da fare per costruire prove, “evidenze scientifiche” dell’esistenza di Babbo Natale, a partire dal panettone, il latte o l’insalata per le renne lasciati in bella vista la sera prima di andare a dormire, e ritrovati consumati la mattina successiva.

Per reggere il gioco si mettono in campo perfino le istituzioni, dal servizio di posta di Rovaniemi, identificato come villaggio di Babbo Natale, all’insospettabile Comando per la difesa aerospaziale nordamericana (NORAD), che nel periodo natalizio gestisce un sito dove è possibile seguire i movimenti della magica slitta grazie ai più avanzati sistemi di monitoraggio militare [10].

Tutto questo rinforza la credenza dei bambini, che dipende dall’esposizione e dall’impegno dei genitori a sostenere il mito ancora più che dall’età dei piccoli, almeno fino a quando si raggiunge il punto in cui si cominciano a collegare indizi sospetti, oppure l’evidente incompatibilità della leggenda con le leggi della fisica comincia a far scricchiolare la costruzione magica [11].

Prima di allora, perché mettere in dubbio quel che mi dicono mamma e papà?

Esistono bugie “a fin di bene”?

È soprattutto sull’idea di tradire la fiducia dei più piccoli che nascono i dubbi sull’opportunità di raccontare ai bambini come vera la favola di Babbo Natale. In fondo non è altro che una bugia, si dice: come possiamo, da un punto di vista etico, chiedere ai più piccoli di essere sinceri, e poi, su questo punto, mentire loro in maniera spudorata e sistematica [12]? Si può parlare, in questo caso, di “bugie a fin di bene”? E quale sarebbe questo “bene”? Alla domanda, senza prendere una posizione netta, ha dedicato un essay addirittura una delle più importanti riviste di psichiatria e salute mentale del mondo, Lancet Psychiatry [13].

Eppure, che si chiami bugia o fiaba, la storia di Babbo Natale non solo è universalmente accettata, ma è anzi considerata quasi necessaria e difesa da tutti, al punto di scatenare reazioni contro chi la metta in dubbio davanti ai bambini prima che questi lo scoprano da soli o addirittura sveli apertamente, volutamente o no, il mistero, anche se a farlo è un insegnante, un prete o addirittura il presidente degli Stati Uniti [14].

Secondo i critici di questa tradizione e del muro di complicità di massa che la difende, scoprire che i genitori hanno mentito su questo punto, potrebbe indurre i bambini a chiedersi in che cos’altro sono stati ingannati, e a dubitare dell’affidabilità degli adulti anche in altri campi, quando raccomandano loro di non avvicinarsi al fuoco o di non salire in auto con gli sconosciuti. Chi si è preso la briga di intervistare i bambini dopo la scoperta, però, non ha trovato conferme a queste preoccupazioni e ha riscontrato in larga parte reazioni positive [15].

Qualcun altro pensa che coltivare il mito di Babbo Natale nei propri figli li esporrebbe a essere presi in giro dai compagni più grandi o più scafati. O ancora, sarebbe come dire che il mondo reale non è abbastanza affascinante di per sé, tanto da dover essere abbellito con un po’ di fantasia. Così non si stimolerebbe la “sana” fantasia dei bambini, ma la si umilierebbe, incoraggiandoli a un approccio irrazionale. Per i detrattori, abituare a credere una storia inverosimile sarebbe quindi diseducativo, ma molti psicologi e pedagoghi pensano il contrario, perché anzi è proprio la dimensione magica che stimola l’immaginazione e la fantasia: secondo Alison Gopnik, docente di psicologia all’Università di Berkeley, in California, ai bambini piacciono le figure immaginarie perché amano “fare finta”, un elemento essenziale dei giochi dell’infanzia, in cui sperimentano la vita adulta. Secondo la ricercatrice californiana, questo esercizio è fondamentale dal punto di vista evolutivo per addestrare la capacità di immaginare modi e mondi alternativi, che è poi la base indispensabile per l’invenzione e l’innovazione [16].

Sebbene la maggior parte delle obiezioni venga da razionalisti scettici, e non da religiosi, qualcuno arriva a mettere in guardia i genitori credenti: raccontare questa storia, che prima o poi sarà svelata, potrebbe minare anche la fede in altre realtà soprannaturali. La rivista dei Gesuiti americani, però, si schiera a favore del vecchio barbuto: con tutti i limiti del consumismo legato alla tradizione, dipende dalla famiglia saper sfruttare la storia di Santa Claus e il senso di meraviglia che suscita nei bambini per trasmettere il vero senso del Natale, inteso come festa cristiana o come momento di valori umani universali [17].

Un argomento a parte riguarda un aspetto “etico” del mito interpretato in maniera e intensità diversa nelle diverse tradizioni e nelle diverse famiglie. Nella tradizione di Babbo Natale, infatti, (ma lo stesso vale per la Befana, Santa Lucia o altre figure, in diverse parti di Italia o del mondo) porta regali ai “bambini buoni”. La storia è stata usata, soprattutto in passato, come un incentivo affinché i bambini si comportino bene. A molti questo approccio educativo basato su premio o castigo non piace: sarebbe una sorta di ricatto morale, un meccanismo di controllo che non aiuta a introiettare valori e regole sociali e morali, soprattutto nei più piccoli [18]. Anche qui, però, dipende come e quanto si insiste su questa lettura della fiaba.

Sempre per i detrattori, non ci vuole molto, poi, a capire che il numero e il valore dei regali che compaiono magicamente sotto l’albero dipendono molto più dal benessere economico della famiglia che non dal comportamento dei bambini. Anche questo finirebbe col trasmettere involontariamente un messaggio negativo. Infine, occorre mettere in conto la delusione della scoperta. Da quel momento, che per qualcuno rappresenta “la fine dell’età dell’innocenza”, spezzata la magia, nessun Natale sarà più lo stesso: una sofferenza che potrebbe controbilanciare e addirittura superare la gioia degli anni precedenti. Lo studio prima citato, tuttavia, non ha trovato traccia di questo “trauma”.

Il momento della rivelazione

L’età a cui si scopre la realtà su Babbo Natale è molto variabile nei vari contesti. Nell’ultima indagine condotta negli Stati Uniti e citata sopra, l’età media a cui ciò avviene è poco meno di 8 anni e mezzo, ma ci sono Stati in cui la rivelazione avviene poco dopo i 7 e altri in cui resiste, sempre in media, oltre i 10.

Diversi sono anche i modi con cui i bambini arrivano a svelare il mistero. A volte il segreto è condiviso da un fratello o un amico più grande, a volte sono i genitori che commettono errori, per cui sono presi in castagna. Quando questo avviene, però, significa di solito che il bambino è pronto a fare il grande passo, altrimenti continuerà a credere anche davanti all’evidenza.

Nella stragrande maggioranza dei casi, come si è detto, questa rivelazione non è dolorosa come i detrattori di Babbo Natale vorrebbero far credere: a seconda di come la cosa viene gestita dai genitori può anzi rappresentare un momento di passaggio in cui far sentire il bambino grande, invitandolo a diventare complice degli adulti e a non rivelare il segreto ai più piccoli, spiegandogli come la figura immaginaria serva a rappresentare concretamente lo spirito di generosità e altruismo della festa, che sarebbe altrimenti difficile spiegare ai piccini; inoltre, può essere anche un’occasione in cui gratificarlo per essere stato in grado di raccogliere e interpretare gli indizi e unirli in un ragionamento razionale (una sorta di “applicazione del metodo scientifico” che va a sfidare l’”ipse dixit” del principio di autorità dei genitori) [19]. La consapevolezza della propria capacità di risolvere il mistero andrebbe a consolidare una qualità importante della personalità, che gli psicologi chiamano “self-efficacy”. “Perché togliere pure questo rituale?” chiede la psicoterapeuta Costanza Jesurum. “Se c’è una cosa per cui l’occidente ha un problema con i suoi figli, è l’estinzione dei rituali” [20].

Insomma, Babbo Natale non fa male a nessuno, sicuramente non ai bambini. A rimanere più delusi dalla scoperta sono spesso i genitori, che in parte alimentano la favola per ritagliare anche per sé stessi un momento di magia attraverso la gioia e lo stupore dei bambini. Forse quanto più la realtà esterna e le prospettive concrete che stiamo preparando per i più piccoli appaiono cupe, tanto più ci si dà da fare per alimentare il mito di Babbo Natale. Quel che dovremmo chiederci è piuttosto perché parte degli adulti sotto Natale senta il bisogno di calarsi nei panni di un’altra figura immaginaria, il Grinch, nemico giurato del Natale e di tutto ciò che vi è correlato. Per Costanza Jesurum “vi riecheggia una sorta di invidia dell’infanzia”. Liberiamocene.

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Autore Roberta Villa

Giornalista pubblicista laureata in medicina, Roberta Villa ha collaborato per più di vent’anni con le pagine di Salute del Corriere della Sera e con molte altre testate cartacee e online, italiane e internazionali. Negli ultimi anni ha approfondito il tema delle vaccinazioni, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, anche in risposta a bufale e fake news. Sul tema della comunicazione della scienza è attualmente impegnata nel progetto europeo QUEST come research fellow dell’Università di Ca’Foscari a Venezia. Insieme ad Antonino Michienzi è autrice dell’e-book “Acqua sporca” (2014), un’inchiesta sul caso Stamina disponibile gratuitamente online. Ha scritto “Vaccini. Il diritto di non avere paura” (2017), distribuito in una prima edizione con il Corriere della Sera e in una seconda (2019) per il Pensiero scientifico editore. È molto attiva sui social network (Youtube, Instagram, Facebook) su cui sta sperimentando un approccio semplice e confidenziale alla divulgazione.
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