Medici, infermieri e altri operatori sanitari subiscono sempre più spesso aggressioni di tipo fisico o verbale da parte dei pazienti, dei loro parenti o addirittura, come in alcuni recenti casi di cronaca, da bande organizzate che attaccano gli ospedali. La situazione si è aggravata con la pandemia da Covid-19, arrivando a interessare in media a livello globale quasi l’80% dei professionisti della salute [1].
Di che cosa si parla esattamente? Si considerano episodi di violenza “gli insulti, le minacce e qualsiasi forma di aggressione fisica, verbale (ivi compreso il discredito via web o social network), psicologica o contro la proprietà, sia della struttura sia dell’operatore, praticati da parte di soggetti esterni all’organizzazione, compresi i pazienti, tali da mettere a repentaglio la salute, la sicurezza o il benessere, anche psicologico, di un individuo” [2]. La definizione viene dal primo Rapporto dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie (ONSEPS) del Ministero della Salute, istituito con specifici compiti di monitoraggio, studio e promozione di iniziative per fronteggiare il fenomeno. L’organismo comprende rappresentanti del dicastero e di altri organi istituzionali, degli ordini professionali e dei sindacati delle professioni coinvolte, delle regioni, dell’INAIL e di organizzazioni di settore.
Il rapporto attinge quindi a diverse fonti per ottenere il maggior numero di informazioni, ma le segnalazioni sono volontarie per cui il quadro descritto non può essere completo, e molti episodi, soprattutto se meno gravi, possono sfuggire alla rilevazione. Inoltre, non tutte le Regioni trasmettono gli stessi dati: per esempio, solo alcune riportano anche i dati provenienti dalle strutture private.
Dottore, quanto è esteso il fenomeno in Italia?
La nuova edizione, relativa al 2023, è la prima che monitora la questione con un sistema di coordinamento a livello nazionale e considera anche le aggressioni verbali, quasi il 70% del totale [3]. Comprendendo queste, insieme alle violenze fisiche e a quelle contro la proprietà personale, si arrivano quindi a contare oltre 16.000 aggressioni l’anno su 18.000 operatori, dal momento che uno stesso evento può coinvolgere più persone. Dal calcolo è esclusa la Sicilia, che non ha fornito i dati.
Pur con i limiti di completezza sopra citati, si può comunque segnalare che due terzi delle aggressioni riguardano donne (che rappresentano oltre il 65% degli operatori nel Servizio sanitario nazionale), soprattutto tra i 30-39 anni e tra i 50-59 anni. Non emergono differenze rispetto orari o giorni della settimana ricollegabili, per esempio, a momenti di minor copertura da parte del personale. Il maggior numero di casi si registra tra gli infermieri, che rappresentano la categoria più numerosa, ma anche a più stretto contatto con i pazienti, seguiti da medici e operatori sociosanitari. I luoghi più a rischio, come atteso, i Pronto Soccorso e i reparti.
Il documento riporta anche varie mappe che illustrano la distribuzione delle segnalazioni sul territorio nazionale, ma è bene ricordare ancora una volta che questi dati non corrispondono sempre a una diversa distribuzione del fenomeno sul territorio nazionale, quanto alla sensibilità e alla volontà di denunciarlo e alla capacità delle istituzioni di tenerne traccia.
Ciò emerge anche dall’indagine condotta all’inizio del 2024 dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri sui circa 480.000 iscritti agli ordini provinciali. Dalle risposte sono emersi quasi 2.900 eventi: in media, significa poco meno di 8 aggressioni al giorno. Eppure, dall’elaborazione dei dati, sembra che a rispondere siano stati solo coloro che hanno subito in prima persona un’aggressione fisica, talvolta con conseguenze, mentre si dà ancora troppo poca importanza alle manifestazioni di violenza verbale, alle minacce, al bullismo, alla molestia sessuale e alla discriminazione razziale.
Dottore, ma perché riguarda tutti?
Le cause di questa situazione sono molteplici, e non riguardano solo l’Italia, ma tutto il mondo [4]. Da un lato talvolta esistono condizioni di oggettive difficoltà da parte dei servizi sanitari a rispondere alle richieste dei cittadini, dall’altro c’è da parte di questi una crescita di aspettative irrealistiche e di conseguente sfiducia nei professionisti e nella sanità. Si aggiungano strutture inadeguate, lunghe liste di attesa, errori di comunicazione e una grave e pervasiva disinformazione sui temi della salute, cui si aggiunge una aggressività diffusa che emerge anche sulle strade, nelle scuole, nelle conversazioni tra le persone e sui social media.
Questo clima avvelenato e conflittuale in un ambito di cura, anche quando non produce danni seri e permanenti al fisico, ha un impatto importante sulla salute mentale degli operatori, tra i quali aumentano i casi di depressione e burn-out [5,6]. Ciò contribuisce, insieme ad altri fattori, all’abbandono da parte del personale sanitario delle posizioni professionali più a rischio, come quelle nei pronto soccorso e nei servizi di emergenza urgenza. Più persone si licenziano o vanno in pensione prima del tempo – e meno giovani professionisti scelgono questa strada – più ristretto sarà il numero di quelli che restano sul campo su questi fronti caldi.
La carenza di personale, che ha già superato la soglia critica, finirà quindi per acuirsi, costringendo chi rimane a turni sempre meno sostenibili, rendendo il servizio sempre meno soddisfacente, le attese sempre più lunghe, il tempo e la disponibilità al dialogo sempre più contratti, alimentando un circolo vizioso che non può non aggravare le difficoltà di un sistema di cui tutti, prima o poi, ci troviamo ad avere bisogno.
In tutto ciò, non è secondario ricordare che la litigiosità nei confronti dei medici alimenta anche la cosiddetta “medicina difensiva”, che porta a prescrivere esami, trattamenti o addirittura interventi chirurgici che non sono nel reale interesse del paziente, ma servono solo a proteggersi da eventuali cause intestate dal malato o dalla sua famiglia. Ciò costa al Servizio sanitario 11 miliardi l’anno, contribuisce ad allungare le liste d’attesa e non di rado espone il paziente a ulteriori rischi [7,8].
Dottore, ma allora che cosa si può fare?
Alcuni studi pubblicati negli anni scorsi hanno avanzato alcune proposte per migliorare la formazione del personale, perché impari come prevenire – anche con una comunicazione adeguata – le situazioni di tensione, ma d’altra parte sappia anche proteggersi. Occorre investire sulla salute mentale degli operatori, ma anche sulle strutture ospedaliere e sugli ambulatori perché offrano maggiore sicurezza. Bisogna infine condurre campagne di comunicazione che sensibilizzino il pubblico a non riversare sui singoli individui le criticità del sistema. Ma senza adeguati finanziamenti per la sanità tutto questo non si potrà realizzare.
Infine, ciascuno di noi può fare la sua parte, evitando di precipitarsi in pronto soccorso per disturbi che potrebbero essere gestiti rivolgendosi al medico di famiglia, ma anche con il nostro atteggiamento nei luoghi di cura: ricordiamo sempre che un’attesa prolungata dipende dalla necessità di occuparsi di persone come noi, ma in condizioni più gravi; cerchiamo di comprendere la stanchezza degli operatori sanitari: sono lì per aiutarci e conviene anche a noi mantenere un clima sereno negli ospedali e nei luoghi di cura. Chiediamo dunque spiegazioni con cortesia e in generale non dimentichiamo – nonostante il dolore o la paura – le regole di buona educazione che vorremmo vedere negli altri.
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