Sfortunatamente sì, le mascherine sono causa di un problema ambientale: nonostante i dispositivi di sicurezza siano indispensabili nel mitigare la diffusione di SARS-CoV-2 (ne abbiamo parlato ad esempio nella scheda “Dopo il vaccino posso smettere di indossare la mascherina?”), oggi sappiamo che il loro aumentato consumo sta aggravando il già serio problema dell’inquinamento causato dalla plastica. Infatti, uno studio recente ha stimato che l’umanità stia utilizzando circa 129 miliardi di mascherine usa e getta ogni mese [1]. Soltanto in Italia, si stima che la quantità di rifiuti provenienti dai dispositivi di sicurezza ogni giorno sia di circa 410 tonnellate [2].
Perché le mascherine inquinano più della plastica?
Prima di tutto, i dispositivi di sicurezza non possono essere riciclati, al fine di contenere il rischio di diffusione del virus e per via dei materiali compositi con cui vengono realizzati. L’aspetto più preoccupante riguarda proprio il materiale di cui sono composte le mascherine, come spiegano i ricercatori Elvis Genbo Xu dell’Università della Danimarca e Zhiyong Jason Ren dell’Università di Princeton in un commento pubblicato sulla rivista Frontiers of Environmental Science & Engineering [3]. Dal loro studio emerge infatti che le mascherine di ultima generazione “sono realizzate direttamente con fibre di plastica di dimensioni nanometriche”, con uno spessore che varia da 1 a 10 micron (un micron è la millesima parte di un millimetro) [3]. Quindi, “nel momento in cui vengono abbandonate nell’ambiente possono rilasciare microplastiche molto più facilmente e velocemente della plastica di uso comune, come i sacchetti usa e getta” [3].
Dottore, mi può dire di più riguardo alle microplastiche?
Mascherine e guanti sono realizzati con molteplici fibre di plastica, prevalentemente polipropilene, che rimane nell’ambiente per decenni, se non per secoli, frammentandosi in sempre più piccole micro- e nanoplastiche.
Parte del problema ambientale causato da mascherine e DPI sono proprio le microplastiche: particelle piccolissime che derivano dalla degradazione dei pezzi più grandi, ma anche da trattamenti industriali e dalle nostre attività quotidiane, come il lavaggio dei tessuti sintetici e le microsfere dei dentifrici, dei cosmetici e dei saponi.
Che conseguenze ha sulla salute la dispersione nell’ambiente di queste particelle?
“Come altri detriti di plastica, le maschere usa e getta possono rilasciare sostanze chimiche nocive come bisfenolo A, metalli pesanti e microrganismi patogeni, che accumulandosi potrebbero avere degli impatti negativi indiretti su piante, animali e esseri umani” [3].
Inoltre, sappiamo che sono state trovate tracce di microplastiche in moltissimi esemplari di mammiferi aquatici [4], mentre le microplastiche mangiate dai pesci e dalle altre creature marine finiscono direttamente nella nostra catena alimentare. Secondo una recente analisi patrocinata dal WWF, ciascuno di noi arriverebbe a ingerire in media cinque grammi di plastica ogni settimana, l’equivalente del peso di una carta di credito [5].
Si aggiunge a questo triste rapporto una ricerca pubblicata in gennaio sulla rivista Environmental International da un team diretto da Antonio Ragusa, direttore dell’Uoc di Ostetricia e Ginecologia Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, che ha rilevato frammenti di microplastiche nella placenta di sei donne [5]. La presenza di queste particelle, affermano i ricercatori, “è spiegata dall’ampio uso di questi composti per colorare non solo i prodotti in plastica” [5]. Infatti, le particelle rilevate nei campioni biologici sono state classificate spesso come pigmenti, largamente usati in un’ampia varietà di cosmetici, in fragranze, deodoranti per ambienti e per tingere tessuti. Altre particelle appartengono alla famiglia dei pigmenti che vengono utilizzati per smalti e colorazione di materiali plastici (come il polipropilene, il “tessuto” più utilizzato per produrre maschere facciali) [5].
Un altro aspetto da non sottovalutare del problema ambientale rappresentato da mascherine e DPI è l’impatto di alcune sostanze chimiche usate per trattare i prodotti sanitari. Si tratta di agenti chimici – come l’acido perfluoroottanoico (più noto come Pfoa), vietato a livello globale con la Conferenza di Stoccolma appunto per la tossicità e la capacità di dispersione, con l’unica eccezione per il trattamento di prodotti sanitari – che, quando vengono inceneriti, rilasciano inquinanti molto tossici e pericolosi come le diossine [6]. Queste sostanze, come conferma anche il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, se disperse nell’ambiente o gestite in maniera scorretta a fine vita, sono causa di un inquinamento molto esteso e pericoloso: possono contaminare falde, suolo e aria [7].
Qual è il modo corretto di smaltire i dispositivi di sicurezza?
I rifiuti come quelli derivanti dai dispositivi per la gestione dei pazienti Covid-19, quindi ricoverati in strutture sanitarie, sono considerati rifiuti pericolosi a rischio infettivo e devono essere smaltiti in impianti autorizzati. Le mascherine e i guanti a cui ricorre la popolazione tutti i giorni vengono invece considerati rifiuti urbani e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) suggerisce di smaltirli nei contenitori destinati all’indifferenziato. Bisogna però fare un’ulteriore precisazione: in caso di positività a SARS-CoV-2 e isolamento presso il proprio domicilio l’ISS consiglia di sospendere la raccolta differenziata e gettare tutti i rifiuti prodotti nell’abitazione nell’indifferenziata [8].
Cosa accade se, accidentalmente, le mascherine vengono disperse nell’ambiente?
Quando non vengono raccolte e smaltite correttamente, le mascherine possono essere trasportate dalla terra all’acqua dolce e agli ambienti marini tramite le correnti dei fiumi, quelle oceaniche, il vento e gli animali (quando vengono intrappolati oppure quando le ingeriscono).
Secondo l’ultimo rapporto di OceansAsia, organizzazione per la conservazione marina che si dedica alle indagini e alla ricerca sui crimini contro la fauna acquatica, nel corso del 2020 “i nostri oceani sono stati inondati da circa 1,56 miliardi di mascherine per il viso” [9]. Questa mole di rifiuti è “solo la punta dell’iceberg”, commenta sul sito dell’organizzazione Teale Phelps Bondaroff, co-fondatore di OceansAsia e autore principale del documento, che precisa: “Le tonnellate di mascherine (tra le 4.680 e le 6.240) sono solo una piccola frazione degli 8-12 milioni di tonnellate di plastica che entrano nei nostri oceani ogni anno” [9].
Le mascherine, prosegue il portavoce di OceansAsia, “entrano negli oceani quando i sistemi di gestione dei rifiuti sono inadeguati o inesistenti o quando questi sistemi vengono sopraffatti a causa dell’aumento dei volumi dei rifiuti” [9]. L’invito che l’organizzazione rivolge alle persone è quello di “smaltire le mascherine in modo responsabile e di ridurre il consumo complessivo di plastica” [9].
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