Esiste un farmaco “miracoloso” per la Covid-19?

9 Settembre 2020 di Redazione

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AGGIORNAMENTO DELL’08 SETTEMBRE 2020

Prosegue l’attività di sperimentazione di nuovi farmaci per la Covid-19

“Attualmente non esistono farmaci antivirali di comprovata efficacia né vaccini per la sua prevenzione. Sfortunatamente, la comunità scientifica ha poca conoscenza dei dettagli molecolari dell’infezione da Sars-CoV-2.” Con questa affermazione si apriva un articolo frutto della collaborazione di numerosi ricercatori internazionali, presentato in anteprima su una piattaforma di pubblicazione ormai molto usata in ambito scientifico. Uno studio che intendeva – per così dire – effettuare un censimento dei principi attivi che potenzialmente potrebbero rappresentare una cura della Covid-19 [1].

Lo studio è stato ripreso da molti media, compreso il New York Times che ha osservato come “l’elenco comprenda anche candidati inattesi come l’aloperidolo, usato per trattare la schizofrenia, e la metformina, medicinale a cui ricorrono persone con diabete di tipo 2” [2].

I ricercatori avevano identificato candidati anche tra prodotti ancora in corso di studio o che sono oggetto di ricerca ancora in fase precoce (come abbiamo spiegato nella scheda I farmaci sperimentali possono essere usati subito?, anche in un momento di emergenza come questo ci sono fasi rigorose da rispettare). Con l’espressione “fase precoce” si intendono quei passaggi in cui vengono studiate il tipo di attività di un principio attivo e la sua possibile tossicità. Curiosamente, nella lista si trovano anche antiparassitari e antibiotici. A conferma di quanto è letto, anche su media rivolti al pubblico non professionale, nell’elenco dei prodotti potenzialmente utili era presente la clorochina. Si tratta del farmaco antimalarico per eccellenza, ma medici impegnati nell’assistenza ai malati di Covid-19 in Cina, Corea del Sud e Francia l’hanno utilizzata e avevano riferito che la terapia con questo farmaco sembrava dare benefici.

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La clorochina funziona contro la Covid-19?

Una ricerca condotta su un piccolo numero di malati in Cina aveva suggerito che i pazienti trattati con clorochina presentavano sintomi leggermente più lievi – per esempio una permanenza in ospedale più breve – rispetto a quelli sottoposti ad una diversa terapia. Occorre dire che si trattava di uno studio molto poco rigoroso dal punto di vista metodologico, pubblicato su una rivista quasi sconosciuta e del quale gli autori avevano fornito pochi dettagli [3].

Risultati “incoraggianti” anche a parere degli autori di un altro studio di piccole dimensioni svolto in Francia, anche questo caratterizzato da limiti metodologici sostanziali [4]. Uno studio, però, che quasi non riusciva neanche a offrire spunti per ricerche ulteriori, aveva commentato il medico Richard Lehman nel proprio spazio di riflessione sul British Medical Journal [5].

In entrambi i casi, i risultati sono stati interpretati con un’enfasi eccessiva dai media internazionali nonostante non ci siano prove di essere di fronte ad un “punto di svolta”. Entusiasmo che ha… contagiato anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che in diverse occasioni ha parlato di “un’enorme promessa”. Quasi contemporaneamente, però, Anthony Fauci, direttore della massima istituzione di ricerca sulle malattie infettive degli Stati Uniti – il National Institute of Allergy and Infectious Diseases – sosteneva che le prove che questi medicinali funzionino sono solo aneddotiche.

Il 23 aprile 2020, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha richiamato nuovamente l’attenzione sul rischio di gravi effetti indesiderati con clorochina e idrossiclorochina impiegati nel contesto della pandemia in corso per il trattamento di pazienti con Covid-19 [6]. Il comunicato ha raccomandato ai pazienti, alle famiglie e agli operatori sanitari di segnalare eventuali reazioni avverse alle rispettive autorità regolatorie nazionali. È fondamentale che nel contesto di Covid-19, questi medicinali devono essere utilizzati solo nell’ambito di studi clinici o in linea con i protocolli concordati a livello nazionale. Non devono essere utilizzati senza prescrizione medica e senza la supervisione di un medico.

La idrossiclorochina è oggetto di una esauriente scheda informativa rivolta ai medici e ai farmacisti pubblicata sul sito dell’Agenzia Italiana del Farmaco [7]. All’interno sono indicati tutti gli studi in corso, costantemente aggiornati, dei quali sono anche commentati i risultati man mano che si rendono disponibili.

Due nuovi studi sono stati pubblicati sulla rivista della associazione dei medici britannici (il BMJ o British Medical Journal), uno svolto in Cina e uno in Francia. In entrambi i casi i risultati sono negativi: l’assunzione di idrossiclorochina non migliora l’esito della malattia e, nello studio francese, il farmaco ha anche causato problemi cardiaci nel 10% dei pazienti [8,9]. Un editoriale uscito lo stesso giorno sul BMJ commenta con amarezza: “dobbiamo ancora trovare la pillola magica” [10].

I risultati di uno studio osservazionale sull’efficacia dell’idrossiclorochina nei pazienti già ospedalizzati [11] e di uno studio randomizzato controllato sull’utilità della somministrazione dello stesso medicinale a domicilio in persone contagiate da Covid-19 ma ancora non ricoverate [12] hanno confermato l’assenza di benefici.

Cosa si intende, però, con “prove aneddotiche”?

Ci troviamo di fronte a “prove aneddotiche” ogni qual volta un amico, una conoscente o una persona sconosciuta in una conversazione informale ci garantisce che quella determinata pillola, quella dieta così bizzarra o quel trattamento fisioterapico ha risolto il suo problema di salute: “non ci crederai, ma su di me ha funzionato”. Intendiamoci, “le impressioni delle persone sugli effetti dei trattamenti non devono essere ignorate” ha scritto un grande medico, Sir Iain Chalmers, tra i fondatori della rete internazionale di ricerca Cochrane Collaboration [13]. “Tuttavia solo raramente sono una base affidabile per trarre solide conclusioni sugli effetti dei trattamenti, tanto meno per raccomandare trattamenti ad altri.”

Queste evidenze che derivano, per così dire, dall’osservazione quotidiana di singoli casi possono essere sostenute anche da medici, da infermieri o farmacisti. Beninteso, in perfetta buona fede: rappresentano, in qualche modo, l’esperienza preziosa dei professionisti sanitari. Insomma, le impressioni e le idee di malati e di medici sugli effetti dei trattamenti possono essere importanti, ma come punto di partenza di ricerche su nuovi trattamenti apparentemente promettenti. “Seguendo proprio queste impressioni attraverso ricerche formali a volte si può arrivare alla identificazione di effetti dannosi o utili dei trattamenti” [13].

Quale consiglio può dare Dottore ma è vero che a chi cerca informazioni attendibili sulle possibili cure per la Covid-19?

Essere molto prudenti e proteggersi con una sana diffidenza dalle notizie di terapie risolutive, sconvolgenti e dalle “verità che vogliono tenerci nascoste”.

Come ha detto con amarezza il giovane medico e ricercatore Bishal Gyawali, “il coronavirus ha finalmente fatto fuori la medicina basata sulle prove. Questa è stata rimpiazzata dalla medicina basata sulle dicerie. Questa vorrebbe che il medico praticasse la medicina basandosi su qualsiasi cosa ascoltasse in televisione o sui social media, senza mai cercarne le prove. E se neanche si aspettasse una conferma (scientifica o regolatoria) di queste dicerie, si guadagnerebbero anche dei punti in più”.

Cosa avremmo da perdere, però, sperimentando farmaci che qualcuno – magari esagerando un poco – giudica “miracolosi”?

“Abbiamo molto da perdere”, spiega Gyawali. “Per noi stessi, per la collettività e per i futuri pazienti perché rischieremmo di usare un medicinale senza conoscerne fino in fondo i meccanismi d’azione e perché perderemmo l’opportunità di ricorrere a farmaci in grado di dare risultati migliori.”

Ascoltiamo le parole di Anthony Fauci, pronunciate in maniera estremamente diretta nel corso di una recentissima conferenza stampa: “Possiamo comprendere l’ottimismo della gente quando osserva i risultati di un medicinale in laboratorio o nel corso di una sperimentazione su animali. Immediatamente, quando hai un disperato bisogno di dare risposte ad una situazione di emergenza di sanità pubblica, vorresti subito poter prescrivere qualcosa ai pazienti. Lo capisco. Il solo problema è che quasi mai riesci a capire se la cosa che hai prescritto funziona e, alla fine della giornata, dopo che hai dato un sacco di roba alla gente, puoi pure essere soddisfatto dal punto di vista umano, pensando di aver comunque fatto qualcosa per qualcuno, ma per certi versi sei stato protagonista di un disservizio. Questo è il motivo per cui qualsiasi intervento sanitario dev’essere messo in atto in maniera eticamente rigorosa, valutandolo preventivamente con uno studio controllato e randomizzato.”

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