Di Covid-19 posso ammalarmi due volte in poco tempo?

2 Aprile 2020 di Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Da quando le autorità sanitarie giapponesi hanno segnalato che una donna a Osaka è risultata nuovamente positiva al coronavirus nel giro di un mese, in molti si stanno chiedendo: se dovessi ammalarmi di Covid-19 e guarire, poi potrei essere contagiato una seconda volta? Le conoscenze sul virus sono ancora imperfette e un nuovo contagio a distanza di poco tempo potrebbe essere una sua caratteristica. I ricercatori, però, si mostrano cauti e ritengono sia improbabile che si possa contrarre il SARS-CoV-2 per la seconda volta in poco tempo. “Non sto dicendo che la reinfezione non possa verificarsi, che non accadrà mai, ma in così poco tempo è improbabile”, ha affermato Florian Krammer, virologo della Icahn School of Medicine dell’ospedale Mount Sinai di New York [1]. In generale, però, gli studiosi non escludono questa eventualità. Soprattutto, ancora non si è in grado di sapere cosa potrebbe accadere quando sarà trascorso un arco di tempo maggiore dei trenta giorni del caso prima citato.

Dottore, perché il test è risultato nuovamente positivo dopo poche settimane?

Un’ipotesi formulata è che, in realtà, la paziente giapponese non fosse ancora completamente guarita ma conservasse una riserva virale che, qualche settimana dopo, ha ripreso a moltiplicarsi determinando una ricaduta. La paziente sarebbe quindi risultata inizialmente negativa al test anche se, in realtà, era ancora infetta.

Il test rileva la presenza del materiale genetico del virus. “Un test risulta positivo se il virus è presente sul tampone in quantità sufficiente nel momento in cui è stato prelevato del muco e della saliva dalla gola del paziente. Un test negativo non dice in modo definitivo che quella persona non sia più portatrice del virus”, ha dichiarato Marc Lipsitch, epidemiologo della Harvard T.H. Chan School of Public Health [1]. Per far capire a tutti cosa intende, Marc Lipsitch ha anche fornito al New York Times un’efficace analogia: quando si toglie la muffa da un barattolo di marmellata la superficie sembra essere priva di muffe, ma non si può escludere che ce ne siano ancora nel barattolo e che ricomincino a crescere [1]. A volte il test può risultare negativo anche se la persona analizzata è ancora infetta. Le motivazioni possono essere varie: il modo in cui viene prelevato il campione da analizzare, la qualità del campione su cui viene seguita l’analisi, la temperatura a cui viene conservato il tampone.

Viceversa, il test può risultare positivo anche quando non si è più infetti?

Sì, è quanto sostiene uno studio pubblicato su un’importante rivista scientifica statunitense, il JAMA [2], che ha mostrato come in quattro operatori sanitari esposti al virus a Wuhan – epicentro dell’epidemia – il test del materiale genetico virale è risultato positivo fino a 13 giorni dalla scomparsa dei sintomi. Che il test fosse ancora positivo a distanza di quasi due settimane non significa necessariamente che i professionisti sanitari fossero comunque in grado di infettare altre persone. Alcuni test, infatti, sono altamente sensibili e attraverso la tecnica chiamata PCR possono amplificare la quantità di genoma del virus SARS-CoV-2 anche a partire da una singola molecola virale.

Dottore, mi perdoni, cosa intende con “tecnica chiamata PCR”?

Giusta osservazione: con la possibilità di duplicare il DNA il laboratorio, è diventato possibile fare copie multiple di una sequenza di DNA. La reazione a catena della polimerasi (o PCR, dall’inglese Polymerase Chain Reaction) è una tecnica di biologia molecolare che rende automatico questo processo e permette di ottenere in provetta (in vitro) la quantità di materiale genetico necessaria per gli scopi predefiniti dai ricercatori.

Tornando alla domanda precedente, il test potrebbe essere positivo semplicemente perché riesce a rilevare piccoli frammenti del virus. “Ad esempio” continua il dottor Krammer “questo tipo di test può rilevare tracce del virus del morbillo anche mesi dopo che le persone che si sono ammalate hanno smesso di diffondere il virus infettivo” [1,3].

Dottore, quando si è considerati guariti?

Per rendere omogenea su tutto il territorio nazionale la definizione di paziente guarito, il Comitato Tecnico-Scientifico del Ministero della Salute ha voluto chiarire alcuni passaggi fondamentali. Con paziente guarito clinicamente da Covid-19 si intende un paziente che, dopo aver presentato manifestazioni cliniche – come febbre, rinite, tosse, mal di gola e, nei casi più gravi, polmonite con insufficienza respiratoria – diventa asintomatico. In questo modo il Ministero della Salute sottolinea ancora una volta che la persona clinicamente guarita può risultare ancora positiva al test per la ricerca di SARS-CoV-2. Con paziente guarito dall’infezione da SARS-CoV-2, invece, si intende chi risolve i sintomi dell’infezione da Covid-19 e che risulta negativo in due test diagnostici consecutivi, effettuati a distanza di almeno 24 ore uno dall’altro [4].

A distanza di mesi o anni potrei ammalarmi di nuovo?

Siamo a conoscenza di questo coronavirus da poco più di due mesi, quindi è comprensibile che non ci siano ancora risposte scientifiche definitive a molte domande, soprattutto su come proceda compiutamente la “guarigione” dei pazienti nel medio-lungo periodo. Allo stesso modo, non sappiamo con certezza se la risposta immunitaria alla malattia conferisca un’immunità, e per quali durate. Quando un batterio o virus entra nel corpo umano il sistema immunitario si attiva per bloccarlo ed eliminarlo e inoltre memorizza come combattere rapidamente l’infezione nel caso in cui lo stesso microbo dovesse ripresentarsi. Al momento non sappiamo se, come molte patologie infettive quali la rosolia e il morbillo, il virus SARS-Cov-2 conferisca un’immunizzazione definitiva che protegga per tutta la vita, oppure un’immunizzazione che duri alcuni mesi o anni.

In altre parole, non possiamo affermare che le persone positive al nuovo coronavirus sono immunizzate o ancora suscettibili a un nuovo contagio. Questa domanda è proprio una di quelle per le quali attendiamo risposte certe. Come ha affermato in una serie di riflessioni su Twitter Nicholas Christakis, clinico e docente all’università di Yale dove dirige lo Human Nature Lab, “probabilmente fino al 40% degli esseri umani sarà contagiato dalla Covid-19 nei prossimi 2 o 3 anni, a giudicare dalle pandemie del passato. Non tutti, però, se ne accorgeranno e solo alcuni (probabilmente meno dell’1,0%) moriranno dopo essere stati contagiati. Il resto si riprenderà. E quasi tutti saranno immuni” [5].

Come scoprire per quanto tempo durerà questa immunità?

Quando gli esseri umani hanno un’infezione, come nel caso del SARS-Cov-2, producono degli anticorpi specifici contro i componenti dell’invasore che possono neutralizzare il virus e proteggere da una nuova infezione. La loro presenza nel sangue è quindi indicativa di un’infezione in corso o pregressa del virus. Per rilevare questi anticorpi vengono utilizzati i test sierologici che, in caso di infezione, permettono di valutare la risposta al virus e se i livelli di anticorpi sono protettivi contro il virus. Questi test sono stati perfezionati negli anni e la loro efficacia è ormai provata [6]. Con test sierologici validati per il Covid-19 potremmo, quindi, notare quanto forte sarà la risposta del nostro sistema immunitario al nuovo coronavirus e questo potrebbe aiutare anche a capire per quanto tempo potremmo esserne immuni.

Per ora quello che possiamo fare è apprendere da quello che succede per altre malattie provocate da virus. “Per alcune malattie, come la poliomielite o la varicella, sei sostanzialmente immune per il resto della tua vita. Ma per molte altre non è così”, continua Christakis [5]. Sicuramente sappiamo che il nuovo coronavirus ha alcune cose in comune con il coronavirus della SARS e con quello della MERS. “La SARS è nota ormai da 17 anni e non ci sono in letteratura scientifica casi significativi di persone che hanno contratto due volte la malattia. Lo stesso vale per la MERS, per cui c’è stato un solo caso di reinfezione”, ha affermato il dottor Stanley Perlman, esperto di coronavirus dell’università dello Iowa [1].

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Autore Rebecca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Rebecca De Fiore ha conseguito un master in Giornalismo presso la Scuola Holden di Torino. Dal 2017 lavora come Web Content Editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, dove collabora alla creazione di contenuti per riviste online e cartacee di informazione scientifica. Fa parte della redazione del progetto Forward sull’innovazione in sanità e collabora ad alcuni dei progetti istituzionali con il Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio.
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