Nelle ultime settimane potrebbe esservi capitato di imbattervi in uno dei moltissimi articoli giornalistici che parlavano di un aumento, per le persone guarite da Covid-19, del rischio di andare incontro a problemi cardiaci a un anno dall’infezione. Un paio di titoli, ad esempio: “Covid, chi ha contratto il virus ha il 62% di probabilità in più di avere un infarto: ecco le malattie cardiache che si rischiano”, “Molto tempo dopo il Covid-19, il cuore è ancora malato” o “Covid, studio americano dimostra l’elevata probabilità di contrarre malattie cardiache dopo la guarigione”.
Gli articoli in questione facevano riferimento a uno studio, pubblicato a inizio febbraio sulla rivista scientifica Nature Medicine [1], che aveva indagato il rischio cardiovascolare a lungo termine nelle persone che avevano contratto Covid-19, ottenendo risultati molto preoccupanti. Tuttavia, nonostante l’enorme diffusione dei risultati, da un’analisi più attenta dello studio in questione si capisce che questo, sebbene informativo, non permette di trarre conclusioni definitive e applicabili a tutta la popolazione.
Cosa dice lo studio pubblicato su Nature Medicine?
I ricercatori della Washington University e del Veterans Administration Health Care System di St. Louis (Missouri) hanno preso in considerazione i dati relativi a circa 150.000 veterani con una precedente infezione da Covid-19 inclusi nel database nazionale dell’US Department of Veterans Affairs [1]. Per valutare il rischio di problemi cardiaci a un anno dall’infezione, poi, hanno costruito due gruppi di confronto con persone che non avevano mai contratto Covid-19: uno composto da più di 5 milioni di persone incluse nello stesso database dal 2020 in avanti e un altro, paragonabile per dimensioni, composto da persone che erano state incluse nel database nel 2017, prima della pandemia.
I risultati hanno messo in evidenza come le persone che avevano contratto Covid-19 presentassero più spesso problemi cardiaci – inclusi ictus, aritmie, malattie ischemiche, malattie tromboemboliche, miocarditi e pericarditi, scompenso cardiaco – rispetto ai soggetti di entrambi i gruppi di controllo. Ad esempio, una precedente infezione da Covid-19 è risultata associata a un rischio del 72% maggiore di scompenso cardiaco, del 62% maggiore di infarto e del 52% maggiore di ictus (le percentuali fanno riferimento al confronto tra i gruppi, non al rischio assoluto di sviluppare le patologie). La gravità delle conseguenze cardiache è poi risultata associata alla gravità dell’infezione: più grave Covid-19, più gravi le conseguenze. Tuttavia, il rischio cardiovascolare è risultato più elevato anche nelle persone che avevano contratto Covid-19 in forma lieve.
“Abbiamo realizzato che [l’effetto] era evidente in tutti i sottogruppi, inclusi gli adulti più giovani, quelli più vecchi, i neri, i bianchi, le persone con obesità e quelle senza” ha commentato in un’intervista a NBC News l’epidemiologa Zyad Al-Aly, responsabile dello studio. “Il rischio era ovunque” [2]. Secondo gli autori, quindi, dato l’elevatissimo numero di persone che hanno contratto l’infezione da SARS-CoV-2 ci sarebbe da aspettarsi, nei prossimi anni, un aumento drammatico del numero di pazienti affetti da malattie cardiache. “I governi e i sistemi sanitari dovrebbero prepararsi per un probabile contributo della pandemia di Covid-19 a un aumento del carico delle patologie cardiovascolari”, scrivono nell’articolo.
Dottore, quindi chi ha avuto Covid-19 deve preoccuparsi degli effetti a lungo termine sul cuore?
In realtà, nonostante le dichiarazioni degli autori e i numerosi approfondimenti usciti sui giornali, è presto per dirlo: lo studio di Nature Medicine offre una rappresentazione solo parziale della relazione tra Covid-19 e i possibili danni a lungo termine sulla salute cardiaca. In primo luogo, le caratteristiche dello studio – basato sull’analisi di dati passati e assegnazione casuale ai vari gruppi – fanno sì che si debba essere molto cauti nel definire un rapporto di causa-effetto tra le due variabili.
Ci sono poi delle precisazioni da fare in merito alla selezione del campione di studio, alcune delle quali riportate dagli stessi autori. Ad esempio, tutta l’analisi fa riferimento a individui inclusi nel database nazionale degli ospedali dei veterani americani, in larga parte costituito da soggetti maschi, bianchi e anziani. Di conseguenza, è necessario fare molta attenzione nell’estendere i risultati ottenuti alla popolazione generale. Sono stati poi inclusi nell’analisi i dati relativi a persone risultate positive a Covid-19 nel periodo compreso tra l’1 marzo 2020 e il 15 gennaio 2021, fase dell’epidemia in cui non erano ancora disponibili (se non in piccola misura nelle ultime settimane) i vaccini contro Covid-19. Quello che descrivono i risultati dello studio di Nature Medicine, quindi, è principalmente la relazione tra l’infezione da SARS-CoV-2 e rischio cardiovascolare in una popolazione costituita in buona parte da anziani maschi, bianchi e non vaccinati. Dice poco, invece, sulla salute di tutti gli altri.
Ma non è tutto. Un altro limite dello studio, anche questo segnalato dagli stessi autori, è che l’assegnazione dei soggetti ai vari gruppi è stata effettuata in base alla presenza o meno di un tampone molecolare positivo per SARS-CoV-2 nella cartella clinica e non valutando la presenza di anticorpi con un test sierologico. Questo significa che nel gruppo di controllo dei soggetti che non avevano avuto Covid-19 potrebbero invece esserci state persone che l’avevano avuto ma che non si erano sottoposte a un test presso uno degli ospedali dei veterani americani, ad esempio perché asintomatiche o perché testate altrove. “Queste persone potrebbero essere state incluse nel gruppo di controllo e, qualora presenti in numero elevato, potrebbero aver influenzato i risultati” si legge nelle conclusioni.
Quindi cosa dovremmo pensare degli effetti di Covid-19 sulla salute cardiaca?
È noto dalle primissime fasi della pandemia che il virus SARS-CoV-2 può danneggiare il cuore e che le persone con patologie cardiache preesistenti possono andare incontro, quando contagiate, a conseguenze più gravi [3,4]. L’ipotesi di un possibile effetto a lungo termine sulla salute cardiaca è quindi ragionevole e il fatto che la comunità scientifica si stia interrogando su questo tema è sicuramente un fatto positivo.
Allo stesso tempo, tuttavia, è importante che gli studi realizzati per indagare questo aspetto siano disegnati in modo tale da fornire risultati quanto più possibile solidi e rappresentativi di quello che sta realmente accadendo nel mondo reale (ad esempio tenendo conto della campagna di vaccinazione contro Covid-19). Solo quando saranno disponibili studi con queste caratteristiche sarà possibile stabilire se l’infezione da SARS-CoV-2 può realmente avere un effetto negativo a lungo termine sulla salute cardiovascolare e se sarà quindi necessario istituire relativi interventi di salute pubblica.
Argomenti correlati:
CoronavirusMalattie cardiovascolari