L’organismo ricorda soprattutto il primo incontro con SARS-CoV-2?

6 Febbraio 2023 di Luca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Un vaccino annuale per proteggersi da Covid, secondo un regime simile a quello utilizzato per l’influenza. È lo ‘scenario più plausibile’ anche per gli esperti dell’Agenzia europea del farmaco (EMA), nonostante permanga in Sars-CoV-2 ancora una certa ‘imprevedibilità’” [1]. A spiegare la posizione dell’agenzia regolatoria europea all’Adnkronos è Marco Cavaleri, responsabile presso EMA delle strategie vaccinali e farmaceutiche di risposta alle minacce pandemiche. Il pronunciamento di EMA era atteso da qualche giorno, dal momento che il 22 gennaio scorso una commissione della Food and Drug Administration (FDA) – ente regolatorio statunitense – si era espressa sostenendo la necessità di una sola dose annuale di vaccino contro Covid-19 nelle persone adulte non sofferenti di patologie croniche [2].

La posizione della commissione della FDA ha rilanciato il dialogo e il confronto sul tema delle strategie vaccinali che non possono – ovviamente – non considerare le caratteristiche peculiari del Sars-CoV-2 [3]. È un dibattito interessante, che conferma la continua attenzione della comunità scientifica per la soluzione delle cause della più drammatica crisi sanitaria del mondo contemporaneo.

Dottore, cosa c’è dietro il parere della commissione della FDA?

l’organismo ricorda soprattutto il primo incontro con SARS-CoV-2Il parere espresso dalla commissione di esperti della FDA ha origine nei risultati di studi condotti nei tre anni di pandemia. Sembra che l’efficacia di un nuovo richiamo del vaccino contro Covid-19 possa essere attenuata da una particolarità del sistema immunitario nota come imprinting. Nel momento in cui incontra di nuovo un virus, infatti, l’organismo tende a rispondere al ceppo di quello stesso virus che ha incontrato per primo, così che la risposta alle varianti successive è meno forte [4]. Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta.

I protagonisti di quella che viene definita “memoria immunitaria”, vera e propria base dell’immunità, sono i linfociti B, generati nei linfonodi durante la prima esposizione dell’organismo a un virus. Col tempo, restano di guardia alla ricerca dello stesso nemico, pronti a produrre anticorpi. Quando il sistema immunitario incontra un ceppo simile – anche se non identico – di un virus, si attiva la produzione di anticorpi che si legano a caratteristiche presenti sia nel vecchio sia nel nuovo ceppo, noti come anticorpi cross-reattivi. Anticorpi che possono offrire una certa protezione.

Si tratta di una “scoperta” nuova?

No: l’imprinting immunitario non è una novità, essendo stato osservato per la prima volta decenni fa in persone affette da influenza. Il sistema immunitario di queste persone rispondeva a un nuovo ceppo circolante producendo anticorpi adatti non al più recente, ma al virus influenzale incontrato per primo molto tempo prima. In alcuni casi, questo portava a una minore capacità di combattere il nuovo ceppo.

Questo potrebbe spiegare qualcosa avvenuta in passato, come la mortalità sorprendentemente alta tra i giovani adulti durante la pandemia influenzale del 1918 [5]. I più anziani, esposti in gioventù a un ceppo influenzale molto simile a quello della pandemia H1N1, avevano una risposta immunitaria più robusta rispetto agli adulti più giovani.

covid coronavirus icon virus

Questo fenomeno sembra ripetersi con Covid-19?

l’organismo ricorda soprattutto il primo incontro con SARS-CoV-2Sì. Una serie di studi sta ora dimostrando come l’imprinting stia influenzando la risposta delle persone al SARS-CoV-2. Per esempio, le persone infettate con il primo ceppo o con i successivi ceppi Alpha o Beta hanno risposte immunitarie diverse a una successiva infezione Omicron, a seconda del ceppo a cui sono state esposte per la prima volta [6]. Inoltre, anche l’esposizione alla variante Omicron stessa non sembra aiutare ad “aggiornare” la risposta nelle persone precedentemente infettate con un ceppo meno recente, il che potrebbe spiegare la ragione per la quale accade che ci si ammali di nuovo di Covid. Quindi, possiamo dire che l’immunità di una persona all’infezione da ceppi successivi dipende fortemente dalle infezioni o vaccinazioni precedenti [6].

In sostanza, i richiami del vaccino Covid-19 inducono protezioni immunitarie diverse a seconda delle differenti combinazioni tra infezione da SARS-CoV-2 e vaccinazione. Uno studio condotto da ricercatori inglesi ha mostrato che la protezione immunitaria è potenziata dall’infezione da B.1.1.529 (Omicron) negli individui vaccinati per tre volte e che non si sono mai infettati in precedenza, ma questo potenziamento si perde in chi è stato precedentemente contagiato con la variante originale Wuhan Hu-1 [7].

Anche uno studio condotto in Cina ha dato gli stessi risultati [8]. Le persone vaccinate con il ceppo originale che poi avevano contratto un’infezione da Omicron producevano anticorpi che erano principalmente cross-reattivi con entrambi i ceppi, ma raramente specifici per Omicron stesso. Al contrario, chi non era stato vaccinato in precedenza produceva anticorpi che rispondevano specificamente a Omicron.

Questo meccanismo che sembra sovvertire il “normale” riconoscimento immunitario potrebbe essere il motivo per cui l’ondata della variante Omicron è stata caratterizzata da un’infezione dirompente e da una frequente reinfezione, con una protezione comunque ben conservata contro la malattia grave negli individui tre volte vaccinati.

Allora i nuovi vaccini non potranno migliorare significativamente la protezione dall’infezione?

l’organismo ricorda soprattutto il primo incontro con SARS-CoV-2Non possiamo dirlo con certezza, e la ricerca prosegue. Aggiornare i vaccini mRNA per adattarli a un nuovo ceppo è relativamente facile, ma i vaccini potrebbero non migliorare significativamente la protezione contro l’infezione, sebbene siano in grado di prevenire la malattia in forma grave. Per questo motivo sono comunque fondamentali nella protezione dalla ospedalizzazione e dalla mortalità, come conferma una “Lettera al Direttore” appena uscita sul New England Journal of Medicine, una delle riviste scientifiche più autorevoli del mondo [9].

Inoltre, il sistema immunitario può innescare dei meccanismi che possono contrastare l’effetto dell’imprinting [4]. I linfociti B possono mutare, in una certa misura, quando vengono esposti a un nuovo ceppo, producendo anticorpi più adatti in un processo noto come “maturazione dell’affinità”. Una ricerca ha monitorato le risposte anticorpali in individui vaccinati con mRNA fino a sei mesi dopo aver contratto la variante Omicron e ha scoperto che almeno un sottoinsieme di linfociti B aveva iniziato a produrre anticorpi corrispondenti a Omicron. Lo studio a oggi è ancora pubblicato solo in versione preprint e quindi non sottoposto a revisione critica [10].

Ad ogni modo, spiega Rosemary Boyton dell’Imperial College di Londra, intervistata dalla rivista Nature [4], “ora che la maggior parte delle persone è protetta, i ricercatori dovrebbero concentrarsi sullo studio di vaccini in grado di superare l’imprinting, per arrestare la diffusione del virus, non solo la gravità della malattia. Siamo in una situazione leggermente diversa [rispetto all’inizio della pandemia] e dobbiamo pensare in modo un poco differente”.

Una prospettiva interessante e per la quale c’è molta attesa è quella offerta dai vaccini nasali, che potrebbero indurre una risposta immunitaria nelle cellule che costituiscono il rivestimento del sistema respiratorio e di altre membrane mucose, la prima barriera che il virus incontra [11]. Oppure nell’uso di adiuvanti aggiunti ai vaccini per potenziare la risposta immunitaria.

l’organismo ricorda soprattutto il primo incontro con SARS-CoV-2Considerata la situazione attuale, i decisori sanitari dovrebbero concentrare la propria attenzione su coloro che beneficiano maggiormente dei vaccini oggi disponibili: anziani, immunocompromessi e persone che convivono con patologie che le pongono in una condizione di maggiore rischio. È questa per esempio la posizione di Paul Offit, medico statunitense che dirige il Vaccine Education Center al Children Hospital di Filadelfia: “Dicendo che chiunque abbia un’età superiore ai sei mesi debba ricevere un richiamo del vaccino bivalente si indebolisce la forza del messaggio. Tutti dovrebbero essere vaccinati, ma coloro che dovrebbero davvero fare il richiamo sono quelli che hanno maggiori probabilità di trarne beneficio” [12]. Non continuando – sostiene Offit sul New England Journal of Medicine [13] – a cercare di prevenire ogni infezione sintomatica nei giovani in buona salute, sottoponendoli a un richiamo di un vaccino mRNA prodotto da ceppi che potrebbero scomparire tra pochi mesi.

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Autore Luca De Fiore (Pensiero Scientifico Editore)

Luca De Fiore è stato presidente della Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane, rete internazionale di ricercatori che lavora alla produzione di revisioni sistematiche e di sintesi della letteratura scientifica, utili per prendere decisioni cliniche e di politica sanitaria (www.associali.it). È direttore del Pensiero Scientifico Editore. Dirige la rivista mensile Recenti progressi in medicina, indicizzata su Medline, Scopus, Embase, e svolge attività di revisore per il BMJ sui temi di suo maggiore interesse: conflitti di interesse, frode e cattiva condotta nel campo della comunicazione scientifica. Non ha incarichi di consulenza né di collaborazione – né retribuita né a titolo volontario – con industrie farmaceutiche o alimentari, di dispositivi medici, produttrici di vaccini, compagnie assicurative o istituti bancari.
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