Nei primi mesi della pandemia, ormai più di un anno fa, nella scheda “Di fronte al SARS-CoV-2 siamo tutti uguali?” vi avevamo raccontato come Covid-19 non fosse uguale per tutti: le persone anziane sono più vulnerabili dei giovani e i maschi sembrano essere più a rischio delle donne. Questi fattori, però, sembrerebbero non essere gli unici a incidere sulla possibilità di contrarre la malattia e di avere esiti sfavorevoli, compreso un maggiore rischio di morte: anche le disuguaglianze sociali possono influire. Ma andiamo per ordine.
Dottore, le pandemie come quella di Covid aumentano le disuguaglianze sociali?
Prima dello scoppio di Covid-19 capitava di sentir dire che le pandemie avessero il potere di ridurre le disuguaglianze. Ma quando è nata questa credenza? Precisamente nel 1347, quando la peste nera uccise quasi la metà della popolazione europea. Oltre a essere terribilmente letale, infatti, la pandemia ebbe conseguenze economiche importanti, compresa una duratura contrazione delle disuguaglianze. Ma la peste nera fu l’unico evento pandemico a ridurle.
Con l’influenza spagnola del 1918, pandemia per certi aspetti simile a quella di Covid-19, povertà e disuguaglianze aumentarono. Diversi studi mostrano che si verificarono differenze tra Paesi ad alto e basso reddito, quartieri più e meno ricchi, gruppi socioeconomici più alti e più bassi, e aree urbane e rurali. Ad esempio, l’India aveva un tasso di mortalità quaranta volte superiore alla Danimarca e il tasso di mortalità in alcuni Paesi sudamericani era venti volte più alto che in Europa. In Norvegia i tassi di mortalità erano maggiori tra i distretti operai di Oslo, mentre negli Stati Uniti lo erano tra i disoccupati e i cittadini poveri di Chicago [1].
Quindi la povertà aumenta il rischio di contrarre Covid-19?
Sembrerebbe di sì: anche nel caso di quest’ultima pandemia è sempre più evidente che le disuguaglianze sociali hanno un impatto profondo sull’incidenza, sui ricoveri e sulla mortalità.
Queste differenze emergono chiaramente a seconda dell’etnia. “L’indagine di sieroprevalenza condotta a luglio in Italia – che ha misurato nella prima ondata la prevalenza di sieropositivi, intorno al 2,5% in tutta la popolazione – mostra uno svantaggio nelle persone immigrate, che hanno più o meno il doppio del rischio di contrarre la malattia. Uno dei motivi è che la maggior parte della popolazione immigrata vive in condizioni di promiscuità, in quartieri poco sicuri, in condizioni di sovraffollamento”, spiega a Dottore ma è vero che? Giuseppe Costa, professore di Igiene presso l’Università di Torino e direttore del servizio di epidemiologia dell’ASL To3. Ma l’Italia non è l’unico Paese in cui emergono le differenze. Negli Stati Uniti, ad esempio, il tasso di infezione è tre volte superiore nelle contee prevalentemente nere rispetto a quelle prevalentemente bianche e il tasso di mortalità è sei volte superiore. E nella sola Chicago oltre il 50% dei casi e quasi il 70% delle vittime fanno parte della popolazione nera [2].
Più difficile, invece, è condurre studi sull’impatto, sull’incidenza e sulle complicanze dovute a Covid-19 di fattori come il titolo di studio, il reddito o la classe sociale. Nonostante questo, però, sembrerebbe che anche questi fattori – chiamati “determinanti sociali” – contribuiscano ad aumentare o a diminuire la possibilità di ammalarsi di Covid-19 e di avere conseguenze più o meno gravi. “Nella prima ondata i test venivano fatti soprattutto al personale sanitario, e quindi ai laureati. Ma se dal totale della popolazione sottoposta a screening levassimo i lavoratori sanitari osserveremmo differenze significative legate alle caratteristiche delle case o ai quartieri di residenza”, continua l’epidemiologo torinese.
Dottore, come si spiega?
Il motivo principale per cui le popolazioni più fragili hanno maggiori possibilità di contrarre Covid-19 in forma più grave, con un conseguente maggiore rischio di morte, è dovuto alle condizioni di salute originarie. Le disuguaglianze di salute, infatti, esistevano già prima di questa pandemia (ne avevamo parlato nella scheda “La povertà fa ammalare?”). In particolare, i gruppi socio-economicamente più svantaggiati sono esposti a un doppio rischio di diventare obesi, di sviluppare diabete di tipo 2, broncopneumopatie cronico ostruttive (BPCO), cardiopatie ischemiche, ictus, malattie psichiatriche. “Abbiamo dati solidi sul fatto che la maggior parte delle patologie che determinano un rischio maggiore di prendere Covid-19 in forma grave è in partenza distribuita in modo molto disuguale”, spiega Costa.
C’è poi la questione di probabilità di esposizione al virus. In Italia e nella maggior parte dei Paesi occidentali le popolazioni più fragili, a basso reddito e con un minor rischio di istruzione sono spesso occupate in lavori che le mettono a stretto contatto con il pubblico, aumentando il rischio di infezione. Altra variabile fondamentale è la qualità di vita: vivere in zone disagiate o in appartamenti affollati aumenta il rischio di diffusione del virus. Basti pensare che, secondo un’indagine pubblicata lo scorso settembre dal governo britannico, solo il 2% delle famiglie bianche in Inghilterra dispone di un minor numero di camere da letto di quante sarebbe necessario avere in casa, contro il 30% circa delle famiglie del Bangladesh, il 16% delle famiglie pakistane e il 15% delle famiglie provenienti dall’Africa [3].
Dottore, anche le conseguenze del lockdown non sono uguali per tutti?
La scelta di bloccare gran parte delle attività e di suggerire alle persone di passare la maggior parte del tempo in casa è stata dettata dalla necessità di agire rapidamente contro la diffusione del virus, per tutelare la salute della popolazione e impedire il collasso della rete ospedaliera. Le conseguenze di queste scelte, però, non sono uguali per tutti: gli effetti collaterali pesano in modo sproporzionato sulle fasce della popolazione già socio-economicamente svantaggiate. Pensiamo, ad esempio, alla differenza tra passare la maggior parte del tempo in una grande villa o in un piccolo appartamento affollato di familiari. In Italia, infatti, ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo, cioè in case dove ci sono meno di dieci metri quadrati per ogni persona [4].
Il lockdown, però, non è la sola cosa che pesa in maniera differente. Anche le conseguenze psicologiche della pandemia, infatti, non vengono vissute dalla popolazione allo stesso modo. Gli anziani sono, generalmente, i più colpiti perché spesso vivono da soli e non hanno gli strumenti tecnologici per mantenere online i contatti sociali. Lo sono anche i bambini e gli adolescenti, soprattutto perché privati della scuola che ha un’importante funzione sociale oltre che formativa. Ma anche le donne, senza il supporto della scuola, possono essere costrette a lasciare il lavoro per occuparsi dei figli e rischiano più spesso di subire violenze tra le mura domestiche. Ci sono infine le persone con patologie pregresse, con problemi di salute mentale oppure con disabilità che si trovano private dei servizi sociali e sociosanitari di supporto.
Dottore, Covid-19 accentuerà le disuguaglianze sociali anche nel futuro?
Purtroppo sì, sembrerebbe che la pandemia di Covid-19 sia destinata a produrre un aumento delle disuguaglianze in quasi tutti i Paesi del mondo. Secondo un rapporto pubblicato da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, le mille persone più ricche del mondo hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite che avevano accumulato per l’emergenza Covid-19, mentre i più poveri per riprendersi dalle gravi conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di dieci anni [5].
E se la Banca Mondiale prevede che entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno in povertà in tutto il mondo, anche in Italia potrebbero esserci conseguenze di questo tipo. Secondo la Caritas italiana, che ha condotto un’indagine nazionale nel periodo dal 9 al 24 aprile dello scorso anno, dopo due mesi di isolamento in Italia è raddoppiato il numero di persone che si sono rivolte per la prima volta ai centri di ascolto e ai servizi dell’organizzazione, rispetto a quelle che erano nel circuito prima dell’emergenza sanitaria. È aumentata notevolmente la richiesta di beni di prima necessità, cibo, viveri e pasti a domicilio, empori solidali, mense, vestiario, ma anche la domanda di aiuti economici per le bollette, gli affitti e le spese della casa [6].
Argomenti correlati:
Coronavirus